Nasce a Pian d’Artogne (Bs) il 14 settembre 1946. Si iscrive alla Cisl quando viene assunto all’Acciaieria di Pisogne come impiegato ed è subito inserito nella commissione interna. Nel 1970 diventa operatore sindacale della Cisl per la Valcamonica. Dal 1971 si trasferisce a Brescia ed è operatore della Filta, categoria della quale diventa successivamente Segretario generale. Dopo la nascita dei comprensori sindacali del 1981, torna il Valcamonica nel 1983 e fino al 1991 è Segretario generale della Filta del nuovo ambito territoriale. Dal 1991 al 2003 è Segretario generale della Cisl Valcamonica-Sebino.
Come si è avvicinato alla Cisl?
A vent’anni ho iniziato a lavorare all’Acciaieria di Pisogne, in Valcamonica, e pochi anni dopo, era il 1970, l’operatore sindacale Cisl della Valle – un ambito territoriale che ha sempre avuto una certa autonomia – per una serie di questioni decise di abbandonare l’attività e chiese a me di sostituirlo. Ero francamente un po’ disorientato, anche perché avevo solo 24 anni. Comunque accettai. Tempo un anno mi chiamarono dalla Cisl di Brescia per-ché era sorta nel frattempo la necessità di irrobustire la Filta, la categoria dei tessili che allora era una delle più importanti della Cisl. In Valle passai le consegne a Sergio Vezzoli che lavorava allo stabilimento Dalmine di Costavolpino.
Segretario generale della Cisl di Brescia era Melino Pillitteri, mentre Dino Maceri era Segretario generale della Filta, uomo burbero al quale ci rivolgevamo con il “lei”, che supervisionava tutto, anche le lettere che scrivevamo! In Segreteria, insieme a Maceri c’era un altro importante personaggio della Cisl, Pietro Panzera, al quale i pensionati hanno intitolato un Premio alla solidarietà che si ripete da molti anni. Come operatori di categoria in quel 1971, c’erano insieme a me Pietro Tognoli e Franco Corselli. Quando Panzera decise di ritirarsi venni eletto Segretario generale della Filta. Era il periodo in cui si cominciava a parlare della necessità del decentramento sindacale, della nascita dei comprensori che diventeranno operativi nel 1981 suddividendo territorialmente la provincia in tre parti: Brescia, Valcamonica-Sebino e Garda-Alto mantovano. Dal punto di vista organizzativo il lavoro più grosso che dovemmo fare in quegli anni fu quello di ridistribuire le forze sui tre nuovi fronti. Attorno agli anni ’80, con me in segreteria c’erano Tognoli e Corselli, c’era anche un bel gruppo di operatori: Gervasio Sarasini (che andò al Comprensorio del Garda come Segretario generale), Franca Tevini, Giuseppe Al-ghisi, Luciano Ciocchi (che divenne responsabile Filta in Valcamonica) e Giovanni Ferrari. Nel 1983, anche per sopravvenuti problemi familiari, tornai in Valle: Ciocchi rientrò a Brescia – dove Ferrari mi aveva sostituito alla guida della categoria – ed io divenni Segretario dei tessili della Cisl Valcamonica-Sebino. Dal 1989, pur mantenendo l’impegno nella Filta, sono entrato nella Segreteria del Comprensorio e dal 1991 al 2003 ne sono stato il Segretario generale.
Com’era l’attività sindacale in quel periodo?
Appena arrivato a Brescia ricordo che ci trovammo a gestire la grande crisi del calzaturiero che portò nel giro di quattro, cinque anni alla chiusura delle più grandi fabbriche della provincia: fu il primo vero segnale di attacco alla sussistenza della categoria dei tessili. Seguendo Panzera nelle assemblee, ricordo di essermi trovato spesso di fronte a centinaia e centinaia di lavoratori di aziende che la crisi portò allo smantellamento nel giro di due, tre anni. All’inizio io dovevo seguire una miriade di piccole aziende, poi, col crescere dell’esperienza, mi furono assegnate aziende sempre più grandi. Tognoli e Corselli seguivano il settore delle confezioni, anche quello con fabbriche molto grandi, ognuna con diverse centinaia di lavoratori e lavoratrici: una realtà oggi impensabile. L’Olcese di Cogno è una delle poche fabbriche tessili sopravvissute alla crisi del settore: aveva 3000 lavoratori, oggi sono poco più di un centinaio.
Da Segretario generale della Filta le responsabilità divennero ovviamente maggiori. Qui iniziarono anche i rapporti con le altre categorie e con la Segreteria dell’Unione, acquisendo una dimensione confederale, ed entrai a far parte del direttivo regionale e di quello nazionale della categoria, disponendo così di una visione molto più ampia delle situazioni in cui ci trovavamo. Un collega e amico di quel periodo fu Eugenio Guarneri, scomparso nel 1987, che era Segretario provinciale dei salariati agricoli, una categoria tra le più importanti della Cisl di allora: più d’una volta, in situazioni difficili per la mia categoria, sempre attraversata da crisi, cassa integrazione e chiusure, Guarneri mi dette una mano. Ho passato probabilmente più tempo a seguire situazioni di crisi piuttosto che a seguire aziende con possibilità di dare risultati anche tangibili ai lavoratori. Mi è toccato gestire centinaia di crisi aziendali dove alla fine, se andava bene, riuscivi a far prendere ai dipendenti un po’ di salario e di cassa integrazione e, negli ultimi tempi, quando è arrivata, la mobilità: il destino delle aziende era purtroppo segnato e dovevamo continuamente contrattare, batterci per il miglior risultato possibile. Ho la presunzione, ovviamente con i colleghi della Cgil e della Uil, di aver inventato forme diversissime di lavoro finalizzate tutte a mantenere la maggiore occupazione possibile. Per esempio, quando si discuteva di riduzioni d’orario, se si lavorava 6 giorni su 7, oppure 7 giorni su 7, la logica era quella di ridurre l’orario, a parità di salario, per tenere più gente impegnata nelle aziende. Nel nostro settore si è andati avanti così. Una delle nostre massime vittorie, mettendo ovviamente la parola tra molte virgolette, fu il riassorbimento di una parte dei lavoratori del cotonificio Olcese di Boario nello stabilimento Olcese di Cogno – con qualche problema di accoglienza da parte degli operai di quest’ultimo che erano già preoccupati di loro – e contemporaneamente l’accompagnamento alla pensione di un buon numero di dipendenti.
I rapporti tra Brescia e la Valcamonica, e tra la Valcamonica e Brescia, sono sempre stati buoni?
Da Segretario generale della Filta le responsabilità divennero ovviamente maggiori. Qui iniziarono anche i rapporti con le altre categorie e con la Segreteria dell’Unione, acquisendo una dimensione confederale, ed entrai a far parte del direttivo regionale e di quello nazionale della categoria, disponendo così di una visione molto più ampia delle situazioni in cui ci trovavamo. Un collega e amico di quel periodo fu Eugenio Guarneri, scomparso nel 1987, che era Segretario provinciale dei salariati agricoli, una categoria tra le più importanti della Cisl di allora: più d’una volta, in situazioni difficili per la mia categoria, sempre attraversata da crisi, cassa integrazione e chiusure, Guarneri mi dette una mano. Ho passato probabilmente più tempo a seguire situazioni di crisi piuttosto che a seguire aziende con possibilità di dare risultati anche tangibili ai lavoratori. Mi è toccato gestire centinaia di crisi aziendali dove alla fine, se andava bene, riuscivi a far prendere ai dipendenti un po’ di salario e di cassa integrazione e, negli ultimi tempi, quando è arrivata, la mobilità: il destino delle aziende era purtroppo segnato e dovevamo continuamente contrattare, batterci per il miglior risultato possibile. Ho la presunzione, ovviamente con i colleghi della Cgil e della Uil, di aver inventato forme diversissime di lavoro finalizzate tutte a mantenere la maggiore occupazione possibile. Per esempio, quando si discuteva di riduzioni d’orario, se si lavorava 6 giorni su 7, oppure 7 giorni su 7, la logica era quella di ridurre l’orario, a parità di salario, per tenere più gente impegnata nelle aziende. Nel nostro settore si è andati avanti così. Una delle nostre massime vittorie, mettendo ovviamente la parola tra molte virgolette, fu il riassorbimento di una parte dei lavoratori del cotonificio Olcese di Boario nello stabilimento Olcese di Cogno – con qualche problema di accoglienza da parte degli operai di quest’ultimo che erano già preoccupati di loro – e contemporaneamente l’accompagnamento alla pensione di un buon numero di dipendenti.
I rapporti tra Brescia e la Valcamonica, e tra la Valcamonica e Brescia, sono sempre stati buoni?
Fino a quando sono rimasto a Brescia, i miei rapporti da Segretario generale della Filta con la Filta della Valcamonica-Sebino, sono sempre stati ottimi. Mi verrebbe da dire, ovviamente ottimi, anche perché ero stato io a proporre Luciano Ciocchi come responsabile della categoria nel Comprensorio; è pur vero che rispetto al concetto di autonomia del Comprensorio non tutti erano perfettamente allineati e concordi: qualche voce Brescia-centrica c’era sempre. Una volta tornato in Valle e diventato Segretario generale della Cisl, ho sempre mantenuto ottimi rapporti con i Segretari che nel frattempo si sono succeduti a Brescia.
C’è da dire che l’autonomia della Valcamonica è sempre stata favorita dalla lontananza dal capoluogo e dalla specificità del territorio. Non a caso il Comprensorio è diventato Unione quando si decise il superamento di quella esperienza.
Durante i 12 anni in cui che ho guidato il Comprensorio da Segretario generale della Cisl Valcamonica-Sebino, con Brescia non ho avuto problemi. Al contrario ho sempre avuto problemi con gli amici della Cisl di Bergamo, perché la Valcamonica comprende anche un pezzo del Sebino che è in provincia di Bergamo, con modalità organizzative provinciali differenti e strutture Asl molto diverse. Una cosa era comunque evidente: un Comprensorio come il nostro, al di là della volontà dei Segretari comprensoriali, forse anche per la lontananza, veniva considerato qualcosa di minore, di meno utile.
Un merito alla creazione del nostro Comprensorio va riconosciuto al fatto che ci siamo auto organizzati: questo processo è riuscito a far crescere tutta una serie di dirigenti sindacali che se fossimo rimasti all’interno della Cisl provinciale, probabilmente non avrebbero avuto mai la possibilità di emergere.
Come sono stati i rapporti con le istituzioni locali?
Anche le istituzioni locali della Valcamonica erano sostanzialmente sulla stessa linea del sindacato, lontani dai centri di potere e quindi costretti a tenersi vicini per andare avanti. Una delle cose utili che credo di aver realizzato in Valcamonica è stata la creazione dell’Osservatorio permanente per l’economia e l’occupazione della Valcamonica e del Sebino, un ente, tuttora esistente, dove il sindacato, i rappresentanti degli enti locali e quelli dell’impresa affrontano i problemi critici del territorio. Non voglio attribuirmi meriti che sono di tutti, ma questo tavolo di confronto ha consentito di trovare alcune importanti soluzioni. Cito ad esempio il problema della linea ferroviaria: se negli anni ’80 io ed i miei colleghi non avessimo ostinatamente insistito per mantenerla sarebbe certamente passata l’ipotesi di eliminarla; la linea ferroviaria non solo è rimasta, ma come da nostra richiesta, ma è stata pure ammodernata.
Sulle nostre istanze le istituzioni tentavano sempre di esserci e di darci una mano. Prendiamo ad esempio l’annosa questione delle strade che congiungono la Valcamonica con Brescia e con Bergamo, tanto annosa da essere ancora oggi aperta: solo la nostra caparbia pressione è riuscita a far approdare la cosiddetta “superstrada”, ex statali 510 e statale 42 da Brescia e da Bergamo, fino a Ceto; e sempre grazie all’insistenza di istituzioni e parti sociali, oggi i lavori sono ripresi per completare un altro tratto. È evidente che una Valle come la nostra, senza garanzie di mobilità sarebbe costretta a rinunciare a qualsiasi possibilità di sviluppo.
Quando lavoravo da sindacalista a Brescia, mi ricordo che anche presso la Camera di commercio avevamo costituito una unità di crisi presieduta da Mario Fappani, divenuto poi assessore regionale. In seguito qualcosa di simile siamo riusciti a impiantarlo anche in Valcamonica: non era ancora l’Osservatorio, ma un tavolo politico dove si tentava di ragionare intorno alle varie crisi e relative istanze o problematiche connesse.
A livello nazionale, l’Associazione imprenditoriale con cui avevamo più rapporti era quella dei cotonieri e dei calzaturieri; a livello locale e provinciale le relazioni erano con l’Associazione industriale bresciana che rappresentava tutte le grandi aziende. Non mancarono gli scontri: col senno di poi li riguardo con parametri ovviamente diversi. Il fine ultimo convergeva ed era quello di salvaguardare l’attività produttiva, che per l’industriale significava tenere in piedi la fabbrica, mentre per il sindacato significava preservare posti di lavoro. L’impressione però è che in molte realtà, in tante discussioni, in numerose vertenze, il ruolo dell’Associazione industriali avrebbe potuto essere più incisivo. Secondo me si sarebbe potuto fare di più, anche se credo vada dato atto a Salvatore D’Erasmo, per molti anni direttore dell’Aib, di un impegno leale. Personalmente ho sempre cercato d’avere rapporti corretti, mirati a trovare insieme le più idonee soluzioni: con lui qualche ragionamento penso di essere riuscito a svolgerlo e credo di aver concluso alcuni positivi accordi preservando posti di lavoro. Con l’Associazione delle piccole imprese, anche per le poche aziende associate, i rapporti sono stati abbastanza scarsi.
Interessanti sono stati invece i rapporti con le Associazioni artigiane. Tra il 1977 e il 1979 il mio omologo alla Filtea, la categoria dei tessili della Cgil, era Dino Greco; ai tessili della Uil mi pare ci fosse Furino, che poi diventò Segretario generale della stessa organizzazione. Tentammo in quel periodo di fare un accordo specifico per l’emersione del lavoro nero nelle aziende artigiane della Valcamonica, dove stimavamo che fossero impiegate nelle piccole aziende di confezione dalle 2.000 alle 3.000 lavoratrici: salvo rare eccezioni, la stragrande maggioranza delle piccole aziende artigiane, direi aziende familiari, non rispettava e non applicava il contratto. Noi proponevamo un percorso articolato, da discutere preventivamente e valutare insieme, tale che permettesse in un tempo determinato e concordato, l’emersione di tutto il lavoro nero. Per due anni intessemmo con le Associazioni artigiane una serie di discussioni ferratissime. Iniziato da Panzera toccò a me portare a termine il progetto, purtroppo con un niente di fatto, nonostante le nostre ragionevoli quanto grandi aspettative e al di là del grande impegno personale profuso da tutti. Non avevamo intenti persecutori nei confronti dei titolari delle aziende – ne conosco molti, brava gente che poi ha dovuto arrabattarsi per vivere – pensavamo però che se fossimo riusciti a tenere insieme queste migliaia di lavoratrici disperse a gruppi di 8-10 su una miriade di piccole e piccolissime imprese, saremmo riusciti a renderle tutte più forti nei confronti dei rispettivi datori di lavoro. Secondo me fu una grande iniziativa, un grande tentativo, purtroppo abortito, che ha messo alla prova la nostra volontà e la voglia di far emergere i diritti di quelle lavoratrici, nonché i doveri delle piccole aziende di confezionamento. A mio avviso molto è dipeso dalla scarsa convinzione nelle Associazioni artigiane, anche se per dovere di verità bisogna ammettere che una buona parte di quelle minuscole aziende – di cui oggi non c’è più traccia – non era associata a niente, ragion per cui c’era un grande bisogno di sindacalizzazione da parte nostra nei confronti delle lavoratrici ed un altrettanto grosso impegno di responsabilizzazione da parte delle Associazioni artigiane nei confronti dei loro potenziali associati.
Quali sono i rapporti che ha sperimentato nella sua esperienza personale e sindacale con la politica e le altre organizzazioni sociali? Prima di essere iscritto alla Cisl sono stato iscritto alle Acli. Da ragazzo ero impegnato nel movimento giovanile della Dc ed ero entrato anche a far parte del Comitato provinciale dei giovani del partito, insieme a Gianni Gei, che fu anche il mio Presidente provinciale; ho lavorato anche con Elio Fontana, che poi divenne anche senatore. Alle Acli mi iscrissi da studente. A vent’anni mi sono diplomato in ragioneria e ho iniziato subito a lavorare all’Acciaieria di Pisogne come impiegato responsabile dell’ufficio acquisti. Non era una cosa di poco conto e la ragione non stava tanto nelle mie capacità – che erano quel che erano essendo alla prima esperienza lavorativa – quanto nel fatto che essendo io il più giovane assunto, probabilmente non ero colluso con alcuno. Tutto sommato, non avevo ragione di lamentarmi. Partecipavo alle attività delle Acli e in particolare ero amico dell’onorevole Michele Capra, che fu anche Presidente provinciale. E fu questo ambiente, le discussioni che si facevano nelle Acli, a convincermi ad impegnarmi anche nel sindacato. Ovviamente non potevo che approdare alla Cisl! Devo dire che, essendo un impiegato, la mia iscrizione al sindacato appariva abbastanza strana all’interno di una fabbrica metalmeccanica, ma non per la proprietà L’Acciaieria di Pisogne era della famiglia Merkel, un ebreo tedesco, socialdemocratico, scappato dall’Est con la moglie: stiamo parlando degli anni tra il 1966 e il 1970, periodo in cui essere socialdemocratico, in Germania, era un fatto ben strano per un industriale. Ebbene, questo signore vide di buon occhio il mio impegno all’interno del sindacato. Avessi trovato un padrone stile Lucchini, probabilmente qualche piccolo problema l’avrei avuto. Ebbene, non avevo ancora finito di iscrivermi alla Cisl che già ero nella commissione interna della fabbrica. Durante i primi anni della mia attività sindacale, mantenevo sempre i contatti personali con il partito e con le Acli. Però devo dire che se anche la stragrande maggioranza dei dirigenti sindacali aveva sostanzialmente nella Democrazia cristiana i suoi punti di riferimento, funzionava – salvo alcune eccezioni – una vera autonomia. Uno poteva essere amico di Pedini, qualcun altro di Prandini, oppure di Martinazzoli (io stavo con Michele Capra, sempre in minoranza, come al solito) ma quando si trattava di operare sul fronte sindacale, tutti questi rapporti non contavano nulla. Credo di essere uno che può con forza ribadire che rispetto alla Cisl nessun partito è mai stato in grado di far passare la sua linea; se anche qualcuno – ma non credo sia successo –avesse azzardato quell’intenzione, gli anticorpi nella Cisl sempre vigili, avrebbero intercettato ed ostacolato ogni collusione. Perciò noi decidevamo in casa nostra, così come ancora oggi decidiamo, il perchè, quanto, dove e come riteniamo giusto operare sindacalmente, e di questa massima autonomia sono assolutamente convinto. A chi non conosce la Cisl forse può non sembrare, io invece dico e confermo la nostra genetica autonomia dai partiti. Questo anche perché alla Cisl di Brescia, diciamolo chiaro, abbiamo sempre avuto Segretari generali, sia delle categorie che soprattutto dell’Unione, di un certo spessore culturale e sindacale. Non è che a Melino Pillitteri qualcuno potesse andare a suggerire le co-se che doveva fare; era più facile che succedesse il contrario! E lo stesso per Castrezzati, per Braghini, Gregorelli, Peli: riconosco a tutti questi dirigenti una grande forza, e credo di averli conosciuti tutti abbastanza bene.
E com’era il rapporto con il sindacato a livello regionale e nazionale?
Personalmente ho sempre avuto, in categoria, buonissimi rapporti con tutti i livelli, nel senso che fin dal primo Congresso a cui presi parte, nei primi anni Settanta, entrai nel direttivo nazionale – non per miei meriti, ma perché la Segreteria così decise – dove sono rimasto una vita. Ricordo che nella Filta nazionale i protagonisti eravamo noi bresciani, i bergamaschi, i vicentini e soprattutto quelli di Biella, che ai tempi avevano un peso notevole, e poi anche i toscani.
Ho sempre avuto buonissimi rapporti con il Segretario nazionale Pieraldo Isolani che seguiva il Coordinamento nazionale del cotonificio Olcese, assicurandoci un buon supporto collaborativo. Rapporti buonissimi sono subentrati anche in seguito alla istituzione della Segreteria e del direttivo regionale, organismi di cui ho fatto parte, sempre lavorando in piena armonia e accordo. Molto importante è stato anche il rapporto di collaborazione e di amicizia con i colleghi delle varie province o dei territori dove c’erano aziende dello stesso gruppo industriale: giocoforza dovevamo lavorare sui nostri coordinamenti, perché diversamente non saremmo riusciti a mantenere una linea comune in grado di contrapporci alle proprietà.
E con le altre sigle sindacali?
I rapporti con la Filtea sono stati piuttosto altalenanti. Quando Segretario generale dei tessili Cgil era Franco Lusardi i rapporti erano sostanzialmente buoni, comunque di rispetto reciproco. Ho avuto problemi con Dino Greco, nel senso che molto spesso i suoi obiettivi erano diametralmente opposti ai nostri. Con i tessili della Uil era molto più semplice, nel senso che i rapporti erano abbastanza inesistenti.
Come vede la Cisl oggi?
Credo che oggi la Cisl stia tentando di fare un sindacato moderno, non ancorato, come pare la Cgil, a visioni che non hanno più motivo di essere. In fondo la Cisl ha sempre cercato di essere all’altezza dei tempi: ovvio che non possiamo ragionare oggi come si ragionava nel ’50, quando siamo nati.
Detto tutto questo bisogna però guardare anche il rovescio della medaglia: forse non abbiamo più quella capacità, quella dialettica interna che in passato ci ha aiutato a diventare grandi. Non saprei come meglio esprimermi, ma mi sembra che una volta ci fosse più vivacità, forse è questo il termine giusto. Io ho molto rispetto delle capacità dei docenti universitari che continuano a venire a parlarci e a spiegarci, ma penso che un’organizzazione come la nostra non deve seguire solo i docenti universitari, che ci spiegano il perché dobbiamo fare questo e quello. Rispetto chi studia, però credo sia anche necessario un po’ di sano pragmatismo e di vivacità da parte di chi vive in prima linea. Bisogna coniugarle, queste due cose, per me questo è fondamentale. Credo che la Cisl questo lo abbia fatto, non dico per anni, per decenni. Oggi mi pare lo faccia un po’ meno. E’ giusto, non è giusto? Io non ho la risposta. A me piacerebbe che quella vivacità che oggi non riscontro più, tornasse ancora.
Mi può dire quale è stato il più grande fallimento o il più grande successo che ha vissuto nella sua esperienza in Cisl?
I successi lasciamoli perdere, nel senso che purtroppo io ho dovuto gestire una categoria e poi un territorio che hanno avuto sempre problemi enormi. Se per successo si intende che si sono chiuse vertenze dove si sono spuntati aumenti strabilianti, allora non è il mio caso, perché il mio è stato un percorso “in tutt’altre faccende affaccendato”. Ma come non ritengo di potermi ascrivere alcun successo, non credo di dovermi imputare degli insuccessi: vivendo in questa categoria, avendo dovuto seguire questa categoria e non un altra, la situazione data era quella descritta. Se poi vogliamo parlare del territorio camuno che ho seguito, allora il tema centrale della mia azione è stato quello di arginare la de-industrializzazione. In Valcamonica abbiamo perso tutta la siderurgia. Avevamo 20 forni fusori, che vuol dire 20 acciaierie: sono sparite tutte. Quando l’Europa ha ritenuto di ridurre la capacità produttiva italiana, con incentivi di un certo peso, i nostri piccoli imprenditori hanno chiuso tutti. Avevamo anche una serie di laminatoi: oggi siamo ridotti all’osso. Del tessile ho già detto. Nell’area del nostro basso Sebino bergamasco adesso sta entrando in crisi tutta la chimica, poiché l’automobile è in difficoltà e quelle aziende sostanzialmente lavorano, al 90%, per l’industria automobilistica: il risultato è quello che si vede.
Questi non possono certo essere chiamati successi, ma alcuni risultati siamo riusciti ad ottenerli: la ferrovia c’è ancora e la superstrada, pur tra mille difficoltà ed esasperanti lentezze, va avanti, e al suo completamento è legato il possibile ritorno un Valle di qualche azienda. La grande speranza è che qualcosa di nuovo si apra in Valcamonica. Oggi questo territorio torna a fare i conti con l’emigrazione: ovviamente non ha più le dimensioni del passato, anche perché non c’è più mercato, non c’è più una forte richiesta come nel lontano passato. Ma è un fenomeno che c’è.
Sono andato in qualche scuola a parlare ai giovani della necessità di saldare i percorsi formativi a quelli occupazionali, e per questo mi sono tirato addosso le ire di molti genitori. Ma ogni anno in Val-camonica si continuano a sfornare centinaia, per non dire migliaia, di geometri, di ragionieri: tutta gente candidata alla disoccupazione già in partenza, giovani che – a meno di proseguire con gli studi universitari – non avranno alcuna possibilità di collocazione. L’alternativa è che si adattino a fare anche quello per cui non hanno studiato, capacità quest’ultima assai notevole nei camuni. Ma non sarebbe meglio provare a mettere insieme scuola, domanda e offerta di lavoro? Non sarebbe bello poter avviare una stagione di programmazione per lo sviluppo che coinvolga da subito anche la scuola? Io penso di sì.
E me lo auguro per il nostro futuro.