Mario Clerici
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Mario Clerici

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Pubblicato il 4 Settembre 2020

Arriva alla Cisl per un’esperienza di qualche mese. A conti fatti ci rimane per più di quarant’anni. Nato a Brescia nel 1945, forma­tosi al sociale nelle Acli degli anni Settanta, in un periodo carico di novità, di difficoltà e di speranze, nel sindacato si occupa ini­zialmente dei lavoratori del settore socio sanitario, ai quali si ag­giungono poi quelli del pubblico impiego. Della Fisos di Brescia è stato Segretario generale dal 1984 al 1996. Ha fatto poi un’e­sperienza di segretario regionale della categoria, mentre a Bre­scia è stato anche componente della Segreteria dell’Unione. In pensione alla fine degli anni Novanta, è stato eletto Segretario ge­nerale della Fnp, incarico che ha lasciato nel 2007 per entrare nel­la Segreteria regionale dei pensionati Cisl.

 

Sulle nostre istanze le istituzioni tentavano sempre di esserci e di darci una mano. Prendiamo ad esempio l’annosa questione delle strade che congiungono la Valcamonica con Brescia e con Berga­mo, tanto annosa da essere ancora oggi aperta: solo la nostra ca­parbia pressione è riuscita a far approdare la cosiddetta “super­strada”, ex statali 510 e statale 42 da Brescia e da Bergamo, fino a Ceto; e sempre grazie all’insistenza di istituzioni e parti sociali, oggi i lavori sono ripresi per completare un altro tratto. È eviden-te che una Valle come la nostra, senza garanzie di mobilità sareb­be costretta a rinunciare a qualsiasi possibilità di sviluppo. 

Quando lavoravo da sindacalista a Brescia, mi ricordo che anche presso la Camera di commercio avevamo costituito una unità di crisi presieduta da Mario Fappani, divenuto poi assessore regio­nale. In seguito qualcosa di simile siamo riusciti a impiantarlo an­che in Valcamonica: non era ancora l’Osservatorio, ma un tavolo politico dove si tentava di ragionare intorno alle varie crisi e rela­tive istanze o problematiche connesse. 

A livello nazionale, l’Associazione imprenditoriale con cui ave­vamo più rapporti era quella dei cotonieri e dei calzaturieri; a li­vello locale e provinciale le relazioni erano con l’Associazione in­dustriale bresciana che rappresentava tutte le grandi aziende. Non mancarono gli scontri: col senno di poi li riguardo con parametri ovviamente diversi. Il fine ultimo convergeva ed era quello di sal­vaguardare l’attività produttiva, che per l’industriale significava tenere in piedi la fabbrica, mentre per il sindacato significava pre­servare posti di lavoro. L’impressione però è che in molte realtà, in tante discussioni, in numerose vertenze, il ruolo dell’Associa­zione industriali avrebbe potuto essere più incisivo. Secondo me si sarebbe potuto fare di più, anche se credo vada dato atto a Sal­vatore D’Erasmo, per molti anni direttore dell’Aib, di un impegno leale. Personalmente ho sempre cercato d’avere rapporti corretti, mirati a trovare insieme le più idonee soluzioni: con lui qualche ragionamento penso di essere riuscito a svolgerlo e credo di aver concluso alcuni positivi accordi preservando posti di lavoro. Con l’Associazione delle piccole imprese, anche per le poche aziende associate, i rapporti sono stati abbastanza scarsi. 

Interessanti sono stati invece i rapporti con le Associazioni arti­giane. Tra il 1977 e il 1979 il mio omologo alla Filtea, la catego­ria dei tessili della Cgil, era Dino Greco; ai tessili della Uil mi pa­re ci fosse Furino, che poi diventò Segretario generale della stes­sa organizzazione. Tentammo in quel periodo di fare un accordo specifico per l’emersione del lavoro nero nelle aziende artigiane della Valcamonica, dove stimavamo che fossero impiegate nelle piccole aziende di confezione dalle 2.000 alle 3.000 lavoratrici: salvo rare eccezioni, la stragrande maggioranza delle piccole aziende artigiane, direi aziende familiari, non rispettava e non ap­plicava il contratto. Noi proponevamo un percorso articolato, da discutere preventivamente e valutare insieme, tale che permettes­se in un tempo determinato e concordato, l’emersione di tutto il la­voro nero. Per due anni intessemmo con le Associazioni artigiane una serie di discussioni ferratissime. Iniziato da Panzera toccò a me portare a termine il progetto, purtroppo con un niente di fatto, nonostante le nostre ragionevoli quanto grandi aspettative e al di là del grande impegno personale profuso da tutti. Non avevamo in­tenti persecutori nei confronti dei titolari delle aziende – ne cono­sco molti, brava gente che poi ha dovuto arrabattarsi per vivere – pensavamo però che se fossimo riusciti a tenere insieme queste mi­gliaia di lavoratrici disperse a gruppi di 8-10 su una miriade di pic­cole e piccolissime imprese, saremmo riusciti a renderle tutte più forti nei confronti dei rispettivi datori di lavoro. Secondo me fu una grande iniziativa, un grande tentativo, purtroppo abortito, che ha messo alla prova la nostra volontà e la voglia di far emergere i di­ritti di quelle lavoratrici, nonché i doveri delle piccole aziende di confezionamento. A mio avviso molto è dipeso dalla scarsa con­vinzione nelle Associazioni artigiane, anche se per dovere di ve­rità bisogna ammettere che una buona parte di quelle minuscole aziende – di cui oggi non c’è più traccia – non era associata a nien­te, ragion per cui c’era un grande bisogno di sindacalizzazione da parte nostra nei confronti delle lavoratrici ed un altrettanto grosso impegno di responsabilizzazione da parte delle Associazioni arti­giane nei confronti dei loro potenziali associati. 

Quali sono i rapporti che ha sperimentato nella sua esperienza per­sonale e sindacale con la politica e le altre organizzazioni sociali? Prima di essere iscritto alla Cisl sono stato iscritto alle Acli. Da ra­gazzo ero impegnato nel movimento giovanile della Dc ed ero en­trato anche a far parte del Comitato provinciale dei giovani del par­tito, insieme a Gianni Gei, che fu anche il mio Presidente provin­ciale; ho lavorato anche con Elio Fontana, che poi divenne anche senatore. Alle Acli mi iscrissi da studente. A vent’anni mi sono di­plomato in ragioneria e ho iniziato subito a lavorare all’Acciaieria di Pisogne come impiegato responsabile dell’ufficio acquisti. Non era una cosa di poco conto e la ragione non stava tanto nelle mie capacità – che erano quel che erano essendo alla prima esperienza lavorativa – quanto nel fatto che essendo io il più giovane assun­to, probabilmente non ero colluso con alcuno. Tutto sommato, non avevo ragione di lamentarmi. Partecipavo alle attività delle Acli e in particolare ero amico dell’onorevole Michele Capra, che fu an­che Presidente provinciale. E fu questo ambiente, le discussioni che si facevano nelle Acli, a convincermi ad impegnarmi anche nel sindacato. Ovviamente non potevo che approdare alla Cisl! Devo dire che, essendo un impiegato, la mia iscrizione al sinda­cato appariva abbastanza strana all’interno di una fabbrica metal­meccanica, ma non per la proprietà L’Acciaieria di Pisogne era della famiglia Merkel, un ebreo tedesco, socialdemocratico, scap­pato dall’Est con la moglie: stiamo parlando degli anni tra il 1966 e il 1970, periodo in cui essere socialdemocratico, in Germania, era un fatto ben strano per un industriale. Ebbene, questo signore vide di buon occhio il mio impegno all’interno del sindacato. Avessi trovato un padrone stile Lucchini, probabilmente qualche piccolo problema l’avrei avuto. Ebbene, non avevo ancora finito di iscrivermi alla Cisl che già ero nella commissione interna del­la fabbrica. Durante i primi anni della mia attività sindacale, man­tenevo sempre i contatti personali con il partito e con le Acli. Però devo dire che se anche la stragrande maggioranza dei dirigenti sindacali aveva sostanzialmente nella Democrazia cristiana i suoi punti di riferimento, funzionava – salvo alcune eccezioni – una vera autonomia. Uno poteva essere amico di Pedini, qualcun al­tro di Prandini, oppure di Martinazzoli (io stavo con Michele Ca­pra, sempre in minoranza, come al solito) ma quando si trattava di operare sul fronte sindacale, tutti questi rapporti non contava­no nulla. Credo di essere uno che può con forza ribadire che ri­spetto alla Cisl nessun partito è mai stato in grado di far passare la sua linea; se anche qualcuno – ma non credo sia successo –aves­se azzardato quell’intenzione, gli anticorpi nella Cisl sempre vi­gili, avrebbero intercettato ed ostacolato ogni collusione. Perciò noi decidevamo in casa nostra, così come ancora oggi decidiamo, il perchè, quanto, dove e come riteniamo giusto operare sindacal­mente, e di questa massima autonomia sono assolutamente con­vinto. A chi non conosce la Cisl forse può non sembrare, io inve­ce dico e confermo la nostra genetica autonomia dai partiti. Que­sto anche perché alla Cisl di Brescia, diciamolo chiaro, abbiamo sempre avuto Segretari generali, sia delle categorie che soprattut­to dell’Unione, di un certo spessore culturale e sindacale. Non è che a Melino Pillitteri qualcuno potesse andare a suggerire le co-se che doveva fare; era più facile che succedesse il contrario! E lo stesso per Castrezzati, per Braghini, Gregorelli, Peli: riconosco a tutti questi dirigenti una grande forza, e credo di averli conosciu­ti tutti abbastanza bene. 

E com’era il rapporto con il sindacato a livello regionale e na­zionale? 

Personalmente ho sempre avuto, in categoria, buonissimi rapporti con tutti i livelli, nel senso che fin dal primo Congresso a cui presi parte, nei primi anni Settanta, entrai nel direttivo nazionale – non per miei meriti, ma perché la Segreteria così decise – dove sono rimasto una vita. Ricordo che nella Filta nazionale i protagonisti eravamo noi bresciani, i bergamaschi, i vicentini e soprattutto quelli di Biella, che ai tempi avevano un peso notevole, e poi anche i toscani. 

Ho sempre avuto buonissimi rapporti con il Segretario nazionale Pieraldo Isolani che seguiva il Coordinamento nazionale del coto­nificio Olcese, assicurandoci un buon supporto collaborativo. Rap­porti buonissimi sono subentrati anche in seguito alla istituzione della Segreteria e del direttivo regionale, organismi di cui ho fatto parte, sempre lavorando in piena armonia e accordo. Molto im­portante è stato anche il rapporto di collaborazione e di amicizia con i colleghi delle varie province o dei territori dove c’erano aziende dello stesso gruppo industriale: giocoforza dovevamo la­vorare sui nostri coordinamenti, perché diversamente non sarem­mo riusciti a mantenere una linea comune in grado di contrappor­ci alle proprietà. 

E con le altre sigle sindacali? 

I rapporti con la Filtea sono stati piuttosto altalenanti. Quando Se­gretario generale dei tessili Cgil era Franco Lusardi i rapporti era­no sostanzialmente buoni, comunque di rispetto reciproco. Ho avuto problemi con Dino Greco, nel senso che molto spesso i suoi obiettivi erano diametralmente opposti ai nostri. Con i tessili del­la Uil era molto più semplice, nel senso che i rapporti erano abba­stanza inesistenti. 

Come vede la Cisl oggi? 

Credo che oggi il Segretario nazionale Bonanni, che ha capacità e grandi intuizioni, stia tentando di fare della Cisl un sindacato mo-derno, non ancorato, come pare la Cgil, a visioni che non hanno più motivo di essere. In fondo la Cisl ha sempre cercato di essere all’altezza dei tempi: ovvio che non possiamo ragionare oggi co­me si ragionava nel ’50, quando siamo nati. 

Detto tutto questo bisogna però guardare anche il rovescio della me­daglia: forse non abbiamo più quella capacità, quella dialettica in­terna che in passato ci ha aiutato a diventare grandi. Non saprei co­me meglio esprimermi, ma mi sembra che una volta ci fosse più vi­vacità, forse è questo il termine giusto. Io ho molto rispetto delle ca­pacità dei docenti universitari che continuano a venire a parlarci e a spiegarci, ma penso che un’organizzazione come la nostra non de­ve seguire solo i docenti universitari, che ci spiegano il perché dob­biamo fare questo e quello. Rispetto chi studia, però credo sia anche necessario un po’ di sano pragmatismo e di vivacità da parte di chi vive in prima linea. Bisogna coniugarle, queste due cose, per me questo è fondamentale. Credo che la Cisl questo lo abbia fatto, non dico per anni, per decenni. Oggi mi pare lo faccia un po’ meno. E’ giusto, non è giusto? Io non ho la risposta. Ame piacerebbe che quel­la vivacità che oggi non riscontro più, tornasse ancora. 

Mi può dire quale è stato il più grande fallimento o il più grande successo che ha vissuto nella sua esperienza in Cisl? 

I successi lasciamoli perdere, nel senso che purtroppo io ho dovu­to gestire una categoria e poi un territorio che hanno avuto sempre problemi enormi. Se per successo si intende che si sono chiuse ver­tenze dove si sono spuntati aumenti strabilianti, allora non è il mio caso, perché il mio è stato un percorso “in tutt’altre faccende af­faccendato”. Ma come non ritengo di potermi ascrivere alcun suc­cesso, non credo di dovermi imputare degli insuccessi: vivendo in questa categoria, avendo dovuto seguire questa categoria e non un altra, la situazione data era quella descritta. Se poi vogliamo par­lare del territorio camuno che ho seguito, allora il tema centrale della mia azione è stato quello di arginare la deindustrializzazio­ne. In Valcamonica abbiamo perso tutta la siderurgia. Avevamo 20 forni fusori, che vuol dire 20 acciaierie: sono sparite tutte. Quan­do l’Europa ha ritenuto di ridurre la capacità produttiva italiana, con incentivi di un certo peso, i nostri piccoli imprenditori hanno chiuso tutti. Avevamo anche una serie di laminatoi: oggi siamo ri­dotti all’osso. Del tessile ho già detto. Nell’area del nostro basso Sebino bergamasco adesso sta entrando in crisi tutta la chimica, poiché l’automobile è in difficoltà e quelle aziende sostanzial­mente lavorano, al 90%, per l’industria automobilistica: il risulta­to è quello che si vede. 

Questi non possono certo essere chiamati successi, ma alcuni ri­sultati siamo riusciti ad ottenerli: la ferrovia c’è ancora e la super­strada, pur tra mille difficoltà ed esasperanti lentezze, va avanti, e al suo completamento è legato il possibile ritorno un Valle di qual­che azienda. La grande speranza è che qualcosa di nuovo si apra in Valcamonica. Oggi questo territorio torna a fare i conti con l’e­migrazione: ovviamente non ha più le dimensioni del passato, an­che perché non c’è più mercato, non c’è più una forte richiesta co­me nel lontano passato. Ma è un fenomeno che c’è. 

Sono andato in qualche scuola a parlare ai giovani della necessità di saldare i percorsi formativi a quelli occupazionali, e per questo mi sono tirato addosso le ire di molti genitori. Ma ogni anno in Val-camonica si continuano a sfornare centinaia, per non dire migliaia, di geometri, di ragionieri: tutta gente candidata alla disoccupazio­ne già in partenza, giovani che – a meno di proseguire con gli stu­di universitari – non avranno alcuna possibilità di collocazione. L’alternativa è che si adattino a fare anche quello per cui non han­no studiato, capacità quest’ultima assai notevole nei camuni. Ma non sarebbe meglio provare a mettere insieme scuola, domanda e offerta di lavoro? Non sarebbe bello poter avviare una stagione di programmazione per lo sviluppo che coinvolga da subito anche la scuola? Io penso di sì. E me lo auguro per il nostro futuro.