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Mario Borgognoni
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Mario Borgognoni

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Pubblicato il 4 Settembre 2020

Nasce a Mazzano (Bs) nel 1927. Laureato in ingegneria entra al­la Om di Brescia nel 1955. Aderisce subito alla Fim e conduce la battaglia contro il “premio antisciopero”. Fa nascere e dirige un giornale interno alla fabbrica che, in polemica con quello della Fiom, chiama “Voce democratica dei lavoratori Cisl” e dalle pa­gine del quale denuncia le angherie dei capireparto. L’azienda non gradisce e lo manda a Milano. Lascia la fabbrica dopo dodi­ci anni e si dedica all’insegnamento. È il fondatore del Sism, Sin­dacato italiano scuola media della Cisl.

 

Come si è avvicinato alla Cisl? 

Quando ho iniziato a lavorare all’Om c’era una forte presenza della Fiom, la categoria dei metalmeccanici della Cgil, mentre la Cisl, il sindacato nuovo nato dalla rottura del 1948, cercava di radicare una presenza e di avere un certo peso. Avevo seguito le vicende sindaca­li da studente; finita la guerra avevo infatti cominciato a frequentare l’Università. Le aziende erano all’inizio del loro sviluppo e l’Om era la fabbrica di maggior richiamo a livello provinciale. Dopo il liceo classico mi ero iscritto a ingegneria; mi interessava l’attività produt­tiva nelle fabbriche e tutti i problemi che riguardavano il mondo ope­raio. Feci la mia tesi sulla costruzione degli autocarri. Il titolo, più o meno, era così: “Come si organizza una fabbrica che costruisca un numero determinato di autocarri al mese”. La scelta era motivata: speravo di poter essere assunto proprio alla Om. E così avvenne. 

Fui destinato all’ufficio calcoli, che faceva parte del servizio pro­getti, con operatori suddivisi in vari gruppi: c’era chi si occupava dei motori e chi della struttura degli automezzi; e poi c’era un grup­po che faceva i calcoli per verificare la resistenza a certi pesi e a certe situazioni delle varie parti dell’autocarro. 

Sono stato parecchio tempo all’ufficio calcoli e mi sono interes­sato immediatamente di sindacato. I rapporti con l’azienda però non erano buoni e così a un certo punto mi trasferirono all’uffi­cio vendite. Qui ho fatto praticamente il giro d’Europa: prima in Jugoslavia, dove siamo riusciti a portare la produzione dei nostri autocarri a delle esposizioni, poi Grecia, Germania e Francia. Ad eccezione di Spagna e Russia mi mandarono ovunque in Europa, anche perché, nel fare domanda di assunzione, avevo detto di co-noscere alcune lingue: dalla mamma trentina avevo in pratica im­parato il tedesco; il francese e l’inglese li avevo studiati a scuo­la; lo spagnolo me l’ero studiato da solo, alla buona. Mettendo insieme la preparazione universitaria con la conoscenza delle lin­gue, devo dire che in Om mi hanno utilizzato, per così dire, ab­bastanza. All’ufficio calcoli, tra l’altro, facevamo anche la tra­duzione di riviste tecniche oppure controllavamo chi faceva la traduzione di queste riviste. 

Ad un certo punto, avendo problemi in famiglia e non potendo re­stare lontano da casa a lungo, chiesi di poter essere utilizzato a Bre­scia e di non essere più mandato all’estero. Incontrai non poche difficoltà e allora, dopo 12 anni di lavoro alla Om Iveco, decisi di andarmene e di dedicarmi all’insegnamento. Scelsi di andare al­l’Istituto Professionale “Moretto”. Nella scuola trovai un’organiz­zazione che per quanto riguarda il trattamento del personale era la peggiore che si potesse immaginare. Per uno come me che veniva dai metalmeccanici dove le relazioni sindacali erano improntate al­la collaborazione, al rispetto reciproco e al rispetto dei diritti fon­damentali, e dove per tutto questo si era anche scioperato, il con­fronto era avvilente. 

Negli anni Settanta, quando ho cominciato ad insegnare, più o me­no l’80% del personale docente era fuori ruolo, il che voleva dire che ogni anno, per poter fare il proprio lavoro di insegnante, biso­gnava rifare la domanda e aspettare di essere nominati. E siccome l’organizzazione era veramente artigianale, le scuole non riusci­vano mai a ripartire secondo il calendario fissato. Prima che ci fos­sero le nomine per gli insegnanti passavano dai quindici ai trenta giorni, talvolta anche di più. 

Decisi allora di iscrivermi alla mia nuova categoria sindacale – anche perché dopo l’esperienza dei metalmeccanici non riuscivo ad immaginare un impiego lavorativo senza organizzazione sin­dacale – ma quando chiesi di essere iscritto al sindacato scuola media e scuola superiore mi venne detto che la categoria si occu­pava solo della scuola elementare. “Se non esiste bisogna costi­tuirlo”, ci dicemmo con alcuni amici. Così è nato il Sism, e io ne sono diventato il primo Segretario generale. La fusione tra Sina-scel e Sism per la costituzione formale della Cisl Scuola avviene nel 1997. Io ero ancora impegnato attivamente e mi venne chie

sto di assumere un incarico nella categoria regionale. Accettai, e per un po’ mi ritrovai ad occuparmi di scuola su scala regionale. 

Dopo la costituzione del Sism venni eletto nel Consiglio naziona­le della pubblica istruzione e anche in quella sede cercai in tutte le maniere di dare il mio contributo alla regolarizzazione della situa­zione, anche con provvedimenti straordinari, come il passaggio in ruolo degli insegnanti con regolare e continuato numero di anni di servizio. Prima della regolarizzazione la situazione della scuola italiana era estremamente turbolenta: gli studenti, soprattutto nel­le scuole superiori, non smettevano mai di scioperare e spesso l’an­no scolastico cominciava a malapena ad ottobre inoltrato, se non a novembre. Ricordo un anno in cui l’inizio regolare delle lezioni avvenne solo a dicembre! 

La stabilizzazione del personale è stata una conquista importante per la regolarizzazione dell’inizio dell’anno scolastico. Siamo anche riusciti, naturalmente non solo la Cisl ma insieme con la Cgil e Uil, ad ottenere che dopo un certo numero di anni di servizio, l’inse­gnante acquisiva il diritto ad avere la stabilità del posto di lavoro.

 

Quali sono state le principali questioni che ha affrontato? 

La questione fondamentale è quella che ho descritto. Oggi si po­trebbe dire in quattro parole: lotta contro il precariato. Non c’era­no solo gli insegnati a dover rincorrere il posto di lavoro; anche il personale non insegnante era costretto allo stesso iter: la domanda entro una certa data, la graduatoria, la convocazione, la nomina. Questa è stata veramente la cosa decisiva e anche quella di mag­giore soddisfazione: la definitiva stabilizzazione del rapporto di la­voro per chi entrava nella scuola. 

Il rapporto tra sindacato confederale e sindacato autonomo è un’al­tra delle questioni di quel periodo. Nella scuola c’era inizialmen­te una presenza dominante dei sindacati autonomi. Naturalmente c’erano delle polemiche sulle iniziative che prendevano, soprat­tutto quando c’era da rinnovare il contratto di lavoro. Poi gradual­mente loro sono calati e noi siamo cresciuti, anche perché c’era una diversità di comportamento. Noi facevamo leva sulla solida­rietà, per esempio, e nel rinnovo del contratto cercavamo di vede­re e di tutelare anche tutte le categorie non presenti, mentre loro si occupavano solo degli insegnanti, punto e a capo. Mentre noi cer­cavamo di valorizzare l’esperienza e il ruolo delle associazioni dei genitori, cioè lavoratori che mandavano i bambini a scuola e vole­vano essere partecipi della sua migliore organizzazione, loro nean­che consideravano l’idea. C’era una diversità di impostazione mol­to grande. Noi puntavamo sulla solidarietà sempre, la più ampia possibile. E questo perché il sindacato confederale è un insieme di sindacati delle varie categorie. Un’impostazione quella della con­federalità molto efficace ai fini delle rivendicazioni, dei riequilibri retributivi, dei riequilibri sociali, del benessere comune. 

La mia sensibilità verso le questioni sociali era cresciuta frequen­tando in città gli ambienti di Azione cattolica, dove ai giovani si parlava di solidarietà e di partecipazione, di lavoro e di diritti del­la persona: eravamo appena usciti da un periodo storico, quello del fascismo, in cui purtroppo bisognava stare molto attenti a cosa si faceva, a come ci si muoveva, come si parlava, un periodo che ave­va visto mortificata la realtà sociale dei lavoratori. C’era dunque la voglia di rifarsi e di contribuire alla rinascita del paese, di fare cose nuove, di fare cose il più possibile corrette e gratificanti dal punto di vista sociale e non solo personale. 

In questa voglia di fare ogni tanto succedeva di non capirsi. Mi ri­cordo ad esempio dei problemi tra la Cisl e la stessa Azione Cat­tolica. Come la volta in cui un assistente ecclesiastico, me lo ri­cordo bene, ci aveva ripresi perché, secondo lui, eravamo andati con i comunisti. In realtà era successo che in fabbrica avevamo fat­to ricorso alla “unità d’azione”. Il concetto era semplice: se c’è un vero motivo, ad esempio il rinnovo di un contratto di lavoro, dove la controparte si chiude e non vuole trattare, bisogna scioperare. Succedeva così che per un certo periodo scioperava da sola la Fiom, poi scioperava da sola la Fim. Sullo sfondo c’era il ricatto di quello che noi chiamavamo “premio antisciopero”, soldi che l’a­zienda dava semestralmente solo a quelli che non avevano sciope­rato. Un giorno io ed altri amici, tra i quali anche Michele Capra che era allora presidente delle Acli, domandammo un incontro a Padre Giulio Bevilacqua, figura straordinaria della Chiesa bre­sciana, e gli parlammo di questa faccenda del “premio” che qual­che problema di coscienza ce lo dava. “Giovanotti – ci disse Padre Bevilacqua – questa è una forma di corruzione! Se avete la schie­na dritta non vi fate comperare. Fate quello che vi sentite, in co­scienza, di dover fare”. E così, uno sciopero dietro l’altro, riu­scimmo a cancellare il “premio antisciopero” e a indirizzare le ri­sorse che l’azienda destinava ad esso verso un “premio di produ­zione”. Ci organizzavamo sempre meglio nel lavoro, cercando di disperdere il meno possibile i tempi, i modi, il materiale, perché la produzione fosse sempre migliore e superiore come quantità, otte­nendo così un riconoscimento economico proporzionale alla cre­scita produttiva: una cosa veramente storica. 

Un’altra figura significativa di quegli anni è stata senza dubbio quella di Padre Marcolini. Tutti lo conoscono per le cooperative edilizie che hanno dato casa a decine di migliaia di famiglie. Io vi­vo in un villaggio nato grazie alla costituzione di una cooperativa come lavoratori della Om. Ricordo che una volta, nell’intervallo di mezzogiorno, sono venuto a piedi fin qui con un amico per ve­dere il posto dove il Comune aveva previsto delle aree fabbricabi­li. C’era un fosso lungo la strada, e una distesa di campi con i con­tadini che stavano tagliando l’erba: “Sarebbe un bel posticino per farci una casa”, ci siamo detti. Padre Marcolini ci ha aiutati e ci ha consentito di fare la cooperativa, “Cooperativa Giardino”, ed io ero il presidente. 

Padre Marcolini era diventato sacerdote in età avanzata e da gio­vane era stato operaio e seguiva l’Om in modo particolare. 

Come ho già detto, a Brescia era un po’ la fabbrica numero uno. Inizialmente non era della Fiat: solo quando si è ingrandita ed è cresciuta e stata acquisita dal marchio torinese. Da Gavardo, il mio paese, venivamo a lavorare qui in una decina, con il pullman. Ri­cordo che ero ancora al liceo – la guerra era finita da poco – quan­do ascoltai per la prima volta Franco Castrezzati; era venuto a Ga­vardo per parlare ai giovani della necessità dell’impegno sociale.

 

Parlando della sua esperienza alla Om ha accennato alla sue dif­ficoltà di rapporto con la proprietà, tanto che poi lasciò la fab­brica. Può dirci qualcosa di più?

All’Om non sempre i rapporti erano distesi: c’era il “premio anti-sciopero” ma anche un “reparto confino”. Allora i lavoratori che fa­cevano capo alla Fiom erano, purtroppo, abbastanza agitati: arriva­rono a scioperare anche semplicemente per il passaggio da Brescia di un generale americano. I rapporti erano diventati così tesi che la direzione – siccome gli attivisti della Fiom erano distribuiti un po’ in tutti i reparti – destinò gli operai i più agitati in un reparto isola­to, al confine della fabbrica. Un “reparto confino”, appunto. Quel­li che lavoravano lì non avevano rapporti con il resto della fabbri­ca, non potevano muoversi, e se qualcuno usciva dal reparto, anche solo per recuperare il materiale necessario alla produzione, c’erano in giro per la fabbrica dei commessi che li controllavano. Poi c’era anche chi, magari per qualche piccola mancanza, veniva mandato a Suzzara, dove c’era un’altra fabbrica dell’Om, che a volte era l’anticamera del licenziamento. Io dirigevo il nostro giornalino – che si chiamava “Voce democratica dei lavoratori Cisl”, contralta­re al foglio della Fiom che era “Voce dei lavoratori” – ed ero un po’ in vista perché scrivevo articoli per questo giornale. Quando c’era qualche caporeparto che bistrattava la gente, noi denunciavamo la cosa. La direzione non gradiva, e ho avuto anch’io il mio confino, a Milano, e per un certo periodo ho dovuto fare il pendolare, ma mi hanno fatto tornare alla svelta perché nel frattempo erano partiti gli scioperi. Quando sono rientrato, dopo 40 giorni, sono andato a rin­graziare i lavoratori per la solidarietà. 

Ovviamente mi destinarono ad altri incarichi. Prima mi hanno fat­to fare dei viaggi in Italia, che ho percorso in lungo e in largo, co­me assistenza tecnica: avevamo rappresentanti e venditori in varie province e città d’Italia e naturalmente, oltre alle vendite, faceva­mo assistenza tecnica; quando un autocarro si rompeva, si rivol­gevano a quelli che l’avevano venduto per le riparazioni. Mi ave­vano dato l’incarico di “ispettore dell’assistenza tecnica”: in pra­tica dovevo controllare se questi rivenditori avevano i pezzi di ri­cambio richiesti per i tipi di autocarri che avevano venduto. Poi mi mandarono anche a Lipsia, oltre la cortina di ferro, per una espo­sizione dove eravamo riusciti, attraverso un rappresentante in Ger­mania, a esporre nostri autocarri. Ma per andare a Lipsia bisogna­va passare da Berlino. Ricordo d’essere passato dalla Porta di Brandeburgo, l’unico punto lungo il muro che divideva in due la città per passare da Ovest a Est. Da lì, non ricordo più con quale mezzo, mi portarono a Lipsia dove rimasi per una settimana a fa­re presenza nel nostro stand, a dare indicazioni, a distribuire gli stampati sul “Leoncino”, famosissimo autocarro Om molto legge­ro, e sul “Tigre”, che era invece un autocarro di portata media. 

Però il giornalino era stata una bella esperienza. Andavamo a stam­parlo alla Pavoniana che era lì vicino. Dell’idea avevo parlato un giorno a Padre Marcolini. conosciuto alla mensa della Pace dove noi che venivamo da fuori città andavamo a mangiare (la mensa della fabbrica non c’era ancora): “Padre, per poter unire la gente, per poter influenzare anche chi è indeciso, dobbiamo fare un gior­nale”. “Bravo – risponde lui – giusta l’idea. Tu pensa al giornale, che al resto penso io”. Ed effettivamente per i primi numeri trovò lui, non so come e non so dove, i soldi per pagare la tipografia. 

 

E con la Cgil com’erano i rapporti? 
Inizialmente, parlo degli anni ’50, non erano ottimi, però poi sia­mo riusciti piano piano a stabilire dei rapporti di collaborazione, naturalmente rispettando l’autonomia uno dell’altro. Dopo i mo­menti iniziali di conflitto, poi siamo riusciti a stabilire quella che è stata chiamata “l’unità di azione”, attuata secondo lo slogan “camminare separati, colpire uniti”. Allora camminare separati e colpire uniti è diventata una regola di vita e noi avevamo cercato di applicare questa regola e penso che non ci sia voluto molto tem­po per raggiungere questo accordo, che poi è diventato anche cor­dialità e amicizia con le persone. Ho avuto tantissimi amici, sia nel sindacato metalmeccanici, che nel sindacato scuola. Nel sindaca­to scuola ormai lo slogan era già anche superato perché si lavora­va di comune accordo e nei confronti dello Stato non c’erano mo­tivi di separazione, e si lavorava bene. Perché poi è diventata una regola; e cioè lo sciopero non è il primo passo. Prima si cerca di concordare contenuti e modalità della trattativa; se poi la trattati­va non riesce a decollare o non si conclude, allora procediamo con lo sciopero. Veramente ci sono stati risultati, progressi e sviluppi anche dal punto di vista umano veramente notevoli. La vita de­mocratica l’abbiamo vista realizzarsi e, modestamente, abbiamo in parte contribuito a svilupparla e consolidarla.

Anche nei momenti più difficili. Quando c’è stata la tragedia di Piazza della Loggia, io ero già al Sism, e lì morirono purtroppo de­gli amici. Insegnavo al “Moretto” e il giorno della bomba mi ave­vano dato l’incarico di andare a parlare con il Sindaco di un co­mune della Bassa perché il preside aveva pensato – o aveva avuto la richiesta – di aprire una scuola coordinata, legata al “Moretto”. Ai colleghi della Cgil Scuola avevo detto di quell’impegno. ag-giungendo però che pensavo di tornare rapidamente e che li avrei raggiunti in manifestazione: “Tenetevi in fondo a Piazza Loggia e aspettatemi lì che arriverò”. A metà della strada di ritorno dalla Bassa mi fermai a fare benzina. “Ha sentito cosa è successo? – mi disse il benzinaio – In Piazza Loggia è scoppiata una bomba”. Era scoppiata proprio lì in fondo alla Piazza, dove c’eravamo dati ap­puntamento. Non dico che senta la responsabilità, però alle volte ci penso. Se non fossi andato a quell’incontro nella Bassa, se fos­si rimasto a Brescia quel giorno, certam