Nasce a Mazzano (Bs) nel 1927. Laureato in ingegneria entra alla Om di Brescia nel 1955. Aderisce subito alla Fim e conduce la battaglia contro il “premio antisciopero”. Fa nascere e dirige un giornale interno alla fabbrica che, in polemica con quello della Fiom, chiama “Voce democratica dei lavoratori Cisl” e dalle pagine del quale denuncia le angherie dei capireparto. L’azienda non gradisce e lo manda a Milano. Lascia la fabbrica dopo dodici anni e si dedica all’insegnamento. È il fondatore del Sism, Sindacato italiano scuola media della Cisl.
Come si è avvicinato alla Cisl?
Quando ho iniziato a lavorare all’Om c’era una forte presenza della Fiom, la categoria dei metalmeccanici della Cgil, mentre la Cisl, il sindacato nuovo nato dalla rottura del 1948, cercava di radicare una presenza e di avere un certo peso. Avevo seguito le vicende sindacali da studente; finita la guerra avevo infatti cominciato a frequentare l’Università. Le aziende erano all’inizio del loro sviluppo e l’Om era la fabbrica di maggior richiamo a livello provinciale. Dopo il liceo classico mi ero iscritto a ingegneria; mi interessava l’attività produttiva nelle fabbriche e tutti i problemi che riguardavano il mondo operaio. Feci la mia tesi sulla costruzione degli autocarri. Il titolo, più o meno, era così: “Come si organizza una fabbrica che costruisca un numero determinato di autocarri al mese”. La scelta era motivata: speravo di poter essere assunto proprio alla Om. E così avvenne.
Fui destinato all’ufficio calcoli, che faceva parte del servizio progetti, con operatori suddivisi in vari gruppi: c’era chi si occupava dei motori e chi della struttura degli automezzi; e poi c’era un gruppo che faceva i calcoli per verificare la resistenza a certi pesi e a certe situazioni delle varie parti dell’autocarro.
Sono stato parecchio tempo all’ufficio calcoli e mi sono interessato immediatamente di sindacato. I rapporti con l’azienda però non erano buoni e così a un certo punto mi trasferirono all’ufficio vendite. Qui ho fatto praticamente il giro d’Europa: prima in Jugoslavia, dove siamo riusciti a portare la produzione dei nostri autocarri a delle esposizioni, poi Grecia, Germania e Francia. Ad eccezione di Spagna e Russia mi mandarono ovunque in Europa, anche perché, nel fare domanda di assunzione, avevo detto di co-noscere alcune lingue: dalla mamma trentina avevo in pratica imparato il tedesco; il francese e l’inglese li avevo studiati a scuola; lo spagnolo me l’ero studiato da solo, alla buona. Mettendo insieme la preparazione universitaria con la conoscenza delle lingue, devo dire che in Om mi hanno utilizzato, per così dire, abbastanza. All’ufficio calcoli, tra l’altro, facevamo anche la traduzione di riviste tecniche oppure controllavamo chi faceva la traduzione di queste riviste.
Ad un certo punto, avendo problemi in famiglia e non potendo restare lontano da casa a lungo, chiesi di poter essere utilizzato a Brescia e di non essere più mandato all’estero. Incontrai non poche difficoltà e allora, dopo 12 anni di lavoro alla Om Iveco, decisi di andarmene e di dedicarmi all’insegnamento. Scelsi di andare all’Istituto Professionale “Moretto”. Nella scuola trovai un’organizzazione che per quanto riguarda il trattamento del personale era la peggiore che si potesse immaginare. Per uno come me che veniva dai metalmeccanici dove le relazioni sindacali erano improntate alla collaborazione, al rispetto reciproco e al rispetto dei diritti fondamentali, e dove per tutto questo si era anche scioperato, il confronto era avvilente.
Negli anni Settanta, quando ho cominciato ad insegnare, più o meno l’80% del personale docente era fuori ruolo, il che voleva dire che ogni anno, per poter fare il proprio lavoro di insegnante, bisognava rifare la domanda e aspettare di essere nominati. E siccome l’organizzazione era veramente artigianale, le scuole non riuscivano mai a ripartire secondo il calendario fissato. Prima che ci fossero le nomine per gli insegnanti passavano dai quindici ai trenta giorni, talvolta anche di più.
Decisi allora di iscrivermi alla mia nuova categoria sindacale – anche perché dopo l’esperienza dei metalmeccanici non riuscivo ad immaginare un impiego lavorativo senza organizzazione sindacale – ma quando chiesi di essere iscritto al sindacato scuola media e scuola superiore mi venne detto che la categoria si occupava solo della scuola elementare. “Se non esiste bisogna costituirlo”, ci dicemmo con alcuni amici. Così è nato il Sism, e io ne sono diventato il primo Segretario generale. La fusione tra Sina-scel e Sism per la costituzione formale della Cisl Scuola avviene nel 1997. Io ero ancora impegnato attivamente e mi venne chie
sto di assumere un incarico nella categoria regionale. Accettai, e per un po’ mi ritrovai ad occuparmi di scuola su scala regionale.
Dopo la costituzione del Sism venni eletto nel Consiglio nazionale della pubblica istruzione e anche in quella sede cercai in tutte le maniere di dare il mio contributo alla regolarizzazione della situazione, anche con provvedimenti straordinari, come il passaggio in ruolo degli insegnanti con regolare e continuato numero di anni di servizio. Prima della regolarizzazione la situazione della scuola italiana era estremamente turbolenta: gli studenti, soprattutto nelle scuole superiori, non smettevano mai di scioperare e spesso l’anno scolastico cominciava a malapena ad ottobre inoltrato, se non a novembre. Ricordo un anno in cui l’inizio regolare delle lezioni avvenne solo a dicembre!
La stabilizzazione del personale è stata una conquista importante per la regolarizzazione dell’inizio dell’anno scolastico. Siamo anche riusciti, naturalmente non solo la Cisl ma insieme con la Cgil e Uil, ad ottenere che dopo un certo numero di anni di servizio, l’insegnante acquisiva il diritto ad avere la stabilità del posto di lavoro.
Quali sono state le principali questioni che ha affrontato?
La questione fondamentale è quella che ho descritto. Oggi si potrebbe dire in quattro parole: lotta contro il precariato. Non c’erano solo gli insegnati a dover rincorrere il posto di lavoro; anche il personale non insegnante era costretto allo stesso iter: la domanda entro una certa data, la graduatoria, la convocazione, la nomina. Questa è stata veramente la cosa decisiva e anche quella di maggiore soddisfazione: la definitiva stabilizzazione del rapporto di lavoro per chi entrava nella scuola.
Il rapporto tra sindacato confederale e sindacato autonomo è un’altra delle questioni di quel periodo. Nella scuola c’era inizialmente una presenza dominante dei sindacati autonomi. Naturalmente c’erano delle polemiche sulle iniziative che prendevano, soprattutto quando c’era da rinnovare il contratto di lavoro. Poi gradualmente loro sono calati e noi siamo cresciuti, anche perché c’era una diversità di comportamento. Noi facevamo leva sulla solidarietà, per esempio, e nel rinnovo del contratto cercavamo di vedere e di tutelare anche tutte le categorie non presenti, mentre loro si occupavano solo degli insegnanti, punto e a capo. Mentre noi cercavamo di valorizzare l’esperienza e il ruolo delle associazioni dei genitori, cioè lavoratori che mandavano i bambini a scuola e volevano essere partecipi della sua migliore organizzazione, loro neanche consideravano l’idea. C’era una diversità di impostazione molto grande. Noi puntavamo sulla solidarietà sempre, la più ampia possibile. E questo perché il sindacato confederale è un insieme di sindacati delle varie categorie. Un’impostazione quella della confederalità molto efficace ai fini delle rivendicazioni, dei riequilibri retributivi, dei riequilibri sociali, del benessere comune.
La mia sensibilità verso le questioni sociali era cresciuta frequentando in città gli ambienti di Azione cattolica, dove ai giovani si parlava di solidarietà e di partecipazione, di lavoro e di diritti della persona: eravamo appena usciti da un periodo storico, quello del fascismo, in cui purtroppo bisognava stare molto attenti a cosa si faceva, a come ci si muoveva, come si parlava, un periodo che aveva visto mortificata la realtà sociale dei lavoratori. C’era dunque la voglia di rifarsi e di contribuire alla rinascita del paese, di fare cose nuove, di fare cose il più possibile corrette e gratificanti dal punto di vista sociale e non solo personale.
In questa voglia di fare ogni tanto succedeva di non capirsi. Mi ricordo ad esempio dei problemi tra la Cisl e la stessa Azione Cattolica. Come la volta in cui un assistente ecclesiastico, me lo ricordo bene, ci aveva ripresi perché, secondo lui, eravamo andati con i comunisti. In realtà era successo che in fabbrica avevamo fatto ricorso alla “unità d’azione”. Il concetto era semplice: se c’è un vero motivo, ad esempio il rinnovo di un contratto di lavoro, dove la controparte si chiude e non vuole trattare, bisogna scioperare. Succedeva così che per un certo periodo scioperava da sola la Fiom, poi scioperava da sola la Fim. Sullo sfondo c’era il ricatto di quello che noi chiamavamo “premio antisciopero”, soldi che l’azienda dava semestralmente solo a quelli che non avevano scioperato. Un giorno io ed altri amici, tra i quali anche Michele Capra che era allora presidente delle Acli, domandammo un incontro a Padre Giulio Bevilacqua, figura straordinaria della Chiesa bresciana, e gli parlammo di questa faccenda del “premio” che qualche problema di coscienza ce lo dava. “Giovanotti – ci disse Padre Bevilacqua – questa è una forma di corruzione! Se avete la schiena dritta non vi fate comperare. Fate quello che vi sentite, in coscienza, di dover fare”. E così, uno sciopero dietro l’altro, riuscimmo a cancellare il “premio antisciopero” e a indirizzare le risorse che l’azienda destinava ad esso verso un “premio di produzione”. Ci organizzavamo sempre meglio nel lavoro, cercando di disperdere il meno possibile i tempi, i modi, il materiale, perché la produzione fosse sempre migliore e superiore come quantità, ottenendo così un riconoscimento economico proporzionale alla crescita produttiva: una cosa veramente storica.
Un’altra figura significativa di quegli anni è stata senza dubbio quella di Padre Marcolini. Tutti lo conoscono per le cooperative edilizie che hanno dato casa a decine di migliaia di famiglie. Io vivo in un villaggio nato grazie alla costituzione di una cooperativa come lavoratori della Om. Ricordo che una volta, nell’intervallo di mezzogiorno, sono venuto a piedi fin qui con un amico per vedere il posto dove il Comune aveva previsto delle aree fabbricabili. C’era un fosso lungo la strada, e una distesa di campi con i contadini che stavano tagliando l’erba: “Sarebbe un bel posticino per farci una casa”, ci siamo detti. Padre Marcolini ci ha aiutati e ci ha consentito di fare la cooperativa, “Cooperativa Giardino”, ed io ero il presidente.
Padre Marcolini era diventato sacerdote in età avanzata e da giovane era stato operaio e seguiva l’Om in modo particolare.
Come ho già detto, a Brescia era un po’ la fabbrica numero uno. Inizialmente non era della Fiat: solo quando si è ingrandita ed è cresciuta e stata acquisita dal marchio torinese. Da Gavardo, il mio paese, venivamo a lavorare qui in una decina, con il pullman. Ricordo che ero ancora al liceo – la guerra era finita da poco – quando ascoltai per la prima volta Franco Castrezzati; era venuto a Gavardo per parlare ai giovani della necessità dell’impegno sociale.
Parlando della sua esperienza alla Om ha accennato alla sue difficoltà di rapporto con la proprietà, tanto che poi lasciò la fabbrica. Può dirci qualcosa di più?
All’Om non sempre i rapporti erano distesi: c’era il “premio anti-sciopero” ma anche un “reparto confino”. Allora i lavoratori che facevano capo alla Fiom erano, purtroppo, abbastanza agitati: arrivarono a scioperare anche semplicemente per il passaggio da Brescia di un generale americano. I rapporti erano diventati così tesi che la direzione – siccome gli attivisti della Fiom erano distribuiti un po’ in tutti i reparti – destinò gli operai i più agitati in un reparto isolato, al confine della fabbrica. Un “reparto confino”, appunto. Quelli che lavoravano lì non avevano rapporti con il resto della fabbrica, non potevano muoversi, e se qualcuno usciva dal reparto, anche solo per recuperare il materiale necessario alla produzione, c’erano in giro per la fabbrica dei commessi che li controllavano. Poi c’era anche chi, magari per qualche piccola mancanza, veniva mandato a Suzzara, dove c’era un’altra fabbrica dell’Om, che a volte era l’anticamera del licenziamento. Io dirigevo il nostro giornalino – che si chiamava “Voce democratica dei lavoratori Cisl”, contraltare al foglio della Fiom che era “Voce dei lavoratori” – ed ero un po’ in vista perché scrivevo articoli per questo giornale. Quando c’era qualche caporeparto che bistrattava la gente, noi denunciavamo la cosa. La direzione non gradiva, e ho avuto anch’io il mio confino, a Milano, e per un certo periodo ho dovuto fare il pendolare, ma mi hanno fatto tornare alla svelta perché nel frattempo erano partiti gli scioperi. Quando sono rientrato, dopo 40 giorni, sono andato a ringraziare i lavoratori per la solidarietà.
Ovviamente mi destinarono ad altri incarichi. Prima mi hanno fatto fare dei viaggi in Italia, che ho percorso in lungo e in largo, come assistenza tecnica: avevamo rappresentanti e venditori in varie province e città d’Italia e naturalmente, oltre alle vendite, facevamo assistenza tecnica; quando un autocarro si rompeva, si rivolgevano a quelli che l’avevano venduto per le riparazioni. Mi avevano dato l’incarico di “ispettore dell’assistenza tecnica”: in pratica dovevo controllare se questi rivenditori avevano i pezzi di ricambio richiesti per i tipi di autocarri che avevano venduto. Poi mi mandarono anche a Lipsia, oltre la cortina di ferro, per una esposizione dove eravamo riusciti, attraverso un rappresentante in Germania, a esporre nostri autocarri. Ma per andare a Lipsia bisognava passare da Berlino. Ricordo d’essere passato dalla Porta di Brandeburgo, l’unico punto lungo il muro che divideva in due la città per passare da Ovest a Est. Da lì, non ricordo più con quale mezzo, mi portarono a Lipsia dove rimasi per una settimana a fare presenza nel nostro stand, a dare indicazioni, a distribuire gli stampati sul “Leoncino”, famosissimo autocarro Om molto leggero, e sul “Tigre”, che era invece un autocarro di portata media.
Però il giornalino era stata una bella esperienza. Andavamo a stamparlo alla Pavoniana che era lì vicino. Dell’idea avevo parlato un giorno a Padre Marcolini. conosciuto alla mensa della Pace dove noi che venivamo da fuori città andavamo a mangiare (la mensa della fabbrica non c’era ancora): “Padre, per poter unire la gente, per poter influenzare anche chi è indeciso, dobbiamo fare un giornale”. “Bravo – risponde lui – giusta l’idea. Tu pensa al giornale, che al resto penso io”. Ed effettivamente per i primi numeri trovò lui, non so come e non so dove, i soldi per pagare la tipografia.
E con la Cgil com’erano i rapporti?
Inizialmente, parlo degli anni ’50, non erano ottimi, però poi siamo riusciti piano piano a stabilire dei rapporti di collaborazione, naturalmente rispettando l’autonomia uno dell’altro. Dopo i momenti iniziali di conflitto, poi siamo riusciti a stabilire quella che è stata chiamata “l’unità di azione”, attuata secondo lo slogan “camminare separati, colpire uniti”. Allora camminare separati e colpire uniti è diventata una regola di vita e noi avevamo cercato di applicare questa regola e penso che non ci sia voluto molto tempo per raggiungere questo accordo, che poi è diventato anche cordialità e amicizia con le persone. Ho avuto tantissimi amici, sia nel sindacato metalmeccanici, che nel sindacato scuola. Nel sindacato scuola ormai lo slogan era già anche superato perché si lavorava di comune accordo e nei confronti dello Stato non c’erano motivi di separazione, e si lavorava bene. Perché poi è diventata una regola; e cioè lo sciopero non è il primo passo. Prima si cerca di concordare contenuti e modalità della trattativa; se poi la trattativa non riesce a decollare o non si conclude, allora procediamo con lo sciopero. Veramente ci sono stati risultati, progressi e sviluppi anche dal punto di vista umano veramente notevoli. La vita democratica l’abbiamo vista realizzarsi e, modestamente, abbiamo in parte contribuito a svilupparla e consolidarla.
Anche nei momenti più difficili. Quando c’è stata la tragedia di Piazza della Loggia, io ero già al Sism, e lì morirono purtroppo degli amici. Insegnavo al “Moretto” e il giorno della bomba mi avevano dato l’incarico di andare a parlare con il Sindaco di un comune della Bassa perché il preside aveva pensato – o aveva avuto la richiesta – di aprire una scuola coordinata, legata al “Moretto”. Ai colleghi della Cgil Scuola avevo detto di quell’impegno. ag-giungendo però che pensavo di tornare rapidamente e che li avrei raggiunti in manifestazione: “Tenetevi in fondo a Piazza Loggia e aspettatemi lì che arriverò”. A metà della strada di ritorno dalla Bassa mi fermai a fare benzina. “Ha sentito cosa è successo? – mi disse il benzinaio – In Piazza Loggia è scoppiata una bomba”. Era scoppiata proprio lì in fondo alla Piazza, dove c’eravamo dati appuntamento. Non dico che senta la responsabilità, però alle volte ci penso. Se non fossi andato a quell’incontro nella Bassa, se fossi rimasto a Brescia quel giorno, certam