Nato nel 1940 a Palazzolo sull’Oglio (Bs) comincia a lavorare da giovanissimo prima alla Marzoli di Palazzolo sull’Oglio e poi alla Innocenti di Milano. Si impegna con la Fim del capoluogo lombardo. Studia di sera e si laurea in Scienze politiche alla Statale di Milano. Nel 1977 entra nella Segreteria della Fim di Brescia e ne diventa Segretario generale l’anno successivo. Vive da protagonista una stagione sindacale difficilissima e tocca a lui chiudere a Brescia l’esperienza unitaria della Federazione lavoratori metalmeccanici. Per ragioni di salute, lascia il sindacato nel 1986. Dal 1995 al 1998 è stato Sindaco di Palazzolo sull’Oglio.
Io ho cominciato a lavorare come operaio da un fabbro-ferraio, ero giovanissimo, avevo solo 14 anni. A 14 anni e mezzo sono stato assunto, sempre come operaio, dalla Marzoli di Palazzolo, che allora con 2.500 dipendenti era una delle principali fabbriche della provincia di Brescia. Agli inizi del 1962, volendo riprendere gli studi serali, sono andato a lavorare a Milano, alla Innocenti, una delle più grandi fabbriche del capoluogo regionale. Da operaio nel frattempo ero diventato impiegato, perché avevo frequentato dei corsi serali professionali e quindi all’Innocenti entrai come tecnico. A Milano ho iniziato ad avvicinarmi al sindacato dei meccanici, la Fim, e ho conosciuto i suoi principali leader, fra cui Car-niti, che allora ne era il Segretario. Nella categoria ho fatto tutti i passaggi graduali: sono stato eletto prima nell’ente paramedicale aziendale come rappresentante della Fim Cisl, poi nella commissione interna e più tardi nel consiglio di fabbrica. Mi sono laureato in Scienze politiche alla Statale di Milano e sono diventato operatore a tempo pieno all’interno della fabbrica: l’Innocenti aveva 7.000 dipendenti e tre distacchi sindacali a tempo pieno, uno per ciascuna Federazione. Nel frattempo l’Innocenti andò in crisi e si aprì una battaglia lunghissima, conclusasi quando l’azienda, che era stata rilevata dagli inglesi della Leyland, finì in mano a De Tomaso. Terminata la vertenza aziendale, nella primavera del ’76 sono stato chiamato a Roma a fare l’operatore alla Fim nazionale, occupandomi in particolare di elettrodomestici, elettronica bianca ecc. Sono rimasto a Roma solo un anno e mezzo, perché fui chiamato a Brescia dai metalmeccanici della Cisl, che avevano bisogno di integrare la Segreteria. Castrezzati stava infatti cercando un suo sostituto, in previsione del suo passaggio alla Cisl: all’interno della sua Segreteria non c’erano disponibilità in questo senso, e quindi fui scelto io, anche perché bresciano. Sono arrivato nella Segreteria dei metalmeccanici a Brescia nel settembre del ’77 e nell’ottobre del ’78 sono stato nominato Segretario generale, perché una settimana prima Castrezzati era stato eletto Segretario generale della Cisl di Brescia, in sostituzione di Pillitteri che, a sua volta, era diventato Segretario generale della Cisl Lombardia.
Il mio percorso di approccio al sindacato è stato questo: tramite conoscenti, colleghi di lavoro, delegati della Fim Cisl milanese, che in fabbrica mi hanno contattato, mi sono avvicinato al sindacato. Per me si è trattato un passaggio naturale, nel senso che, per formazione culturale e politica, ero già orientato in questa direzione e quindi per me è stato quasi ovvio iscrivermi alla Fim e quindi alla Cisl ed entrare a far parte di questa organizzazione.
Allora la Fim era una organizzazione un po’ atipica, nel senso che si connotava quasi come un sindacato nel sindacato. Aveva infatti un margine di autonomia notevole, anche rispetto alle Confederazioni: era partito infatti da Fim, Fiom e Uilm l’esperimento dell’unità sindacale con la costituzione della Federazione lavoratori metalmeccanici. Sulla stessa strada c’erano i chimici, i tessili e gli edili, ma erano i meccanici ad avere portato molto avanti l’esperienza costituendo organismi unitari e politiche unitarie.
L’unità si avvia nel ’71-’72, diventa operativa nel ’72 e marcia senza intoppi per un po’ di tempo. Per una serie di motivi comincia a scricchiolare verso la fine degli anni Settanta, innanzitutto perché Cisl, Cgil e Uil si erano fermate nel processo unificatorio, per l’interferenza politica nel sindacato, che rimaneva forte specialmente da parte del Partito comunista sulla Cgil. Questo è stato l’elemento principale che ha minato l’unità sindacale; non meno decisiva fu la crisi economica e industriale che nel frattempo si era fatta molto forte accentuando i fenomeni di tensione e di divergenza interna al sindacato rispetto alle politiche utili per superarla. Qualche dato per capirci: Brescia, fra l’80 e l’85, perde 27.000 addetti nell’industria: gli occupati passano da 219.000 a 192.000. Il ter-ziario, nello stesso periodo, sale da 162.000 a 186.000, con un incremento di 24.000 addetti. Il risultato complessivo però è di 3.000 occupati in meno, e questo pesa, tant’è che il tasso di disoccupazione raddoppia, passando dal 3,9% al 7,1%. In quello stesso periodo, ’81-’85, gli stabilimenti che hanno più di 500 dipendenti perdono il 5% dei posti di lavoro. Nell’84 a Brescia ci sono 24 milioni di ore di cassa integrazione, equivalenti a 15.000 lavoratori estromessi dal processo produttivo. Questo pesa assai sul sindacato dei metalmeccanici. Bisogna tener conto che nel 1980 la Flm aveva 50.000 iscritti, era quindi una categoria fortissima. A seguito della politica di decentramento territoriale nascono poi i comprensori sindacali del Garda e della Valcamonica. La Flm bresciana scende così a 40.000 iscritti, che precipitano nell’84 a 28.000 iscritti e l’anno successivo a 25.000. Cominciano le grandi ristrutturazioni nelle fabbriche e un sacco di aziende importantissime con più di 2.000 dipendenti – Pietra, Franchi ed Eredi Gnutti a Brescia; Marzoli a Palazzolo; Falck a Vobarno – vanno in crisi. A ridimensionare è soprattutto la siderurgia; il Governo dà addirittura in quel periodo degli incentivi al padronato per rottamare l’industria siderurgica. Nel frattempo nel Paese, la politica che il sindacato, in particolare la Flm, aveva favorito, quella di un impegno sociale più ampio che andava oltre le rivendicazioni di categoria – sviluppo del Mezzogiorno; difesa più in generale dei livelli di vita delle persone – comincia a risentirne, perché nel frattempo l’inflazione arriva quasi al 20%. Si pone quindi il problema di congelare la scala mobile, anche perché l’inflazione a due cifre danneggia soprattutto gli operai. Cominciano quindi i problemi degli accordi sulla scala mobile. Il primo accordo è del gennaio 1983, che diminuisce del 20% la copertura della scala mobile, ma soprattutto è l’accordo del febbraio 1984, quello del congelamento definitivo, che spacca clamorosamente il sindacato, con la Cgil, e il Pci, che si schierano contro, e una tensione rovente nelle fabbriche, specie qui a Brescia dove la Cgil era molto politicizzata. Bisogna però dire che a Brescia, allora, era la Cgil che condizionava il Partito comunista e non viceversa, e dentro la Cgil era la Fiom a decidere la linea. Noi come Fim eravamo quelli più in difficoltà, perché avevamo sempre praticato l’autonomia politica, e ci trovavamo a non avere supporti né da una parte né dall’altra, incontrando quindi forti difficoltà. In difficoltà soprattutto perché avevamo smantellato dieci anni prima i riferimenti organizzativi aziendali per spenderci senza riserve nel processo di unificazione, mentre la Fiom, attraverso il Pci, aveva mantenuto una rete di legami saldi. Nello stesso tempo, iscritti che militavano nella Fim, quelli dell’Om in particolare, avevano fatto un accordo interno con la Fiom, dissentendo dalla strategia della Cisl. Da lì partirono i cosiddetti “autoconvocati” che parteciparono a Roma alla manifestazione della Cgil e del Pci contro il congelamento della scala mobile, per cui nacque una fortissima tensione interna alla nostra organizzazione oltre che nella Flm.
Come Segretario ho dovuto gestire questa situazione molto difficile, con grandi tensioni. A complicare di più le cose c’era Luigi Lucchini, proprietario delle Acciaierie e Ferriere Lucchini ed azionista tra l’altro della Eredi Gnutti, che in quegli anni investiva negli scioperi per crearsi un’immagine forte da spendere in loco e nel paese.
Grazie alla sua politica antisindacale divenne presidente degli industriali bresciani e poco dopo presidente di Confindustria. Luc-chini mi ha anche portato in Tribunale – dirò tra poco perché – con una causa che è durata dieci anni e che si è finalmente chiusa in Corte d’Appello con la definitiva sentenza assolutoria.
C’era dunque una situazione pesantissima. Il referendum sulla scala mobile dell’85 completa il quadro. Vincono le nostre argomentazioni ma il sindacato ne esce a pezzi. Noi prendiamo atto di questa rottura, usciamo dalla Flm, anche fisicamente, e facciamo il tesseramento per conto nostro. È un passaggio che ci costa tantissimo, perché perdiamo moltissimi iscritti. Dei 10.000 iscritti che pensavamo d’avere ne tesseriamo meno di 6.500. La Fiom ne ha quasi 16.500; 1.000 la Uil. C’è anche un gruppo di lavoratori che tiene solo la tessera della Flm. Anche la Cisl di Brescia si spacca clamorosamente, e prima della Cisl la stessa Fim. Nel Congresso dell’81 infatti mi ritrovo con un pezzo di Segreteria che mi rema contro e lo scontro è inevitabile.
La frattura interna si consuma sulla concezione dell’autonomia del sindacato. Dalla mia Segreteria, perché costretti da me con il marchingegno della sfiducia tecnica, escono Gianni Vezzoni, Mario Gregorelli e Rodolfo Valentino. Questo accade a febbraio. A giu-gno andiamo al Congresso: io ottengo l’80% dei consensi, loro meno del 20%. Lasciano quindi gli incarichi a Brescia e vengono spostati nei comprensori del Garda e della Valcamonica. Questa frattura interna alla Fim si ripercuote, direi si ribalta, sulla Cisl, ma si ribalta in senso opposto. Cioè nel senso che il Congresso Cisl, che si svolge una settimana dopo quello della mia categoria, apparentemente si presenta tranquillo, unanime, nel senso che tutti sono d’accordo con la relazione del Segretario, tant’è che Castrezzati nella replica conclusiva non fa che prendere atto che c’è consenso su tutto. Solo che, al momento del voto, Castrezzati prende molto meno della metà dei voti congressuali: a Castrezzati vanno 23.000 voti, a Gregorelli più di 33.000 e a Braghini 26.600. È evidente quindi che c’è stato un pilotaggio dei voti che, secondo me, è sfuggito di mano persino agli stessi organizzatori di questa manovra, cioè a Gregorelli e a Braghini. La mia opinione è che loro volessero dare il segnale che erano forti all’interno della Cisl e quindi in grado di condizionarla, ma la manovra è in parte sfuggita loro di mano, andando oltre quanto prefissato. Castrezzati si dimette immediatamente e lascia la Cisl. Dice basta, prendendo atto che è stato sconfitto dal voto congressuale.
Nella Fim i giochi si spostano sull’esito della vertenza della Eredi Gnutti, quella vertenza tremenda che si concluderà solo nel 1982. Mi si attaccava perché l’avrei gestita in modo verticistico, senza coinvolgere tutta la Cisl, sicché di fatto avrei implicitamente favorito la Fiom e la Cgil. Cose assolutamente non vere. Eravamo tutti in grande difficoltà su queste vicende, stretti per di più in una crisi tremenda a livello generale da cui era difficile uscirne. Come ho detto, l’anno prima ero stato querelato da Lucchini per una mia dichiarazione su un giornale locale in cui sostenevo che la vertenza sindacale alla Eredi Gnutti era stata usata da Lucchini per modificare gli equilibri azionari di quella società. La questione diventò anche argomento di dibattito politico con i partiti bresciani che prendevano posizione per questo o per quello. Quasi una conferma al fatto che anche nella crisi della Cisl, oltre a questioni di potere e di rivalse personali, avevano pesato i legami di qualche dirigente con la Democrazia cristiana, partito del quale Gregorelli diventerà qualche anno dopo deputato. Dicevo delle rivalse personali. Castrezza-ti è stato un leader fortissimo, a volte contestato fuori dalla sua categoria e nel mondo sociale e politico, ma amato e rispettato nella Fim; un uomo di grande rigore, di grande onestà culturale e politica, capace, che in vicende precedenti si era scontrato con moltissimi anche dentro la Cisl, e alcuni di questi gliel’avevano giurata. La Fim stessa, già nel Congresso del ’76 aveva avuto uno scontro violentissimo con il gruppo Om – un gruppo dichiaratamente filo-democristiano, il gruppo di Landi – e anche questa vicenda aveva lasciato dei forti strascichi dentro e fuori la Fim. Tutte queste vicende si condensano nel Congresso dell’Unione, come in parte era accaduto nel Congresso della Fim, con tre miei colleghi di segreteria che si erano illusi di avere più potere schierandosi con il gruppo Om e con chi nella Cisl stava preparando la fronda. Non essendo riusciti a giocare in modo vincente la loro partita nella Fim, la delusione si proietta nel Congresso della Cisl, saldandosi con questi vecchi rancori personali e con la voglia degli uomini più legati alla Democrazia cristiana di conquistare visibilità e più spazi di potere. Castrezzati era un cultore dell’autonomia del sindacato, come lo ero io del resto, e quindi eravamo più isolati all’esterno. Tutto questo insieme di elementi sfocia nella vicenda congressuale che, ripeto, secondo me è andata oltre le intenzioni dei proponenti. Loro pensavano di dare solo un segnale forte, di sminuire cioè il consenso attorno a Castrezzati, facendolo uscire votato appena appena e di segnare la loro presenza condizionante, invece Castrezzati prende molti meno voti del previsto e quindi è evidente che la questione è scappata di mano in modo drammatico.
Quando si fanno questi ragionamenti poi si deve sempre considerare quale peso aveva la Fim nella Cisl: allora era il 30% dell’organizzazione, dieci anni dopo peserà invece per il 10%.
Tornando al Congresso Cisl, le categorie del pubblico impiego soprattutto – che avevano vissuto con insofferenza l’egemonia culturale e politica della Fim, che a volte era stata anche forte, con uomini come Castrezzati, proprio grazie al suo carisma – si ribellano e avanzano le loro richieste cominciando a modificare gli assetti di potere interni. A parte il potere personale, tutto ciò, in termini di politica culturale, si traduceva sostanzialmente in una maggiore attenzione ai partiti, e quindi alla Democrazia cristiana. Dopo la rottura dell’unità sindacale, in termini di politica sindacale infatti non ci sono state divergenze evidenti tra Cisl e Fim. Anche perché a livello nazionale la Cisl va avanti ancora nelle sue politiche, Carniti è ancora Segretario generale, e anche poco dopo quan-do arriva Marini non cambiano sostanzialmente i modelli contrattuali e la politica rivendicativa della Cisl. Cambia invece il rapporto di forza qui a Brescia, per la situazione particolare in cui si trovava il sindacato bresciano e per il desiderio più o meno recondito dei partiti di riequilibrare quel potere di supplenza che il sindacato aveva esercitato a lungo. Ciò accadeva più in generale in Italia, tra gli anni ’70 e i primi anni ’80, ma a Brescia fu assai forte questo ruolo di supplenza, quindi è chiaro che i partiti si riprendono i loro spazi, e se li riprendono con gli interessi. Il Partito comunista con qualche difficoltà perché, ripeto, era la Cgil che di fatto condizionava il partito e quindi ci è voluto parecchio tempo per rovesciare questa situazione, alla fine non del tutto risolta per lo scioglimento del Partito comunista. Nella Cisl bresciana invece si è notato in modo più evidente questo riallineamento. Non intendo con questo fare delle accuse nel senso che la Cisl sia diventata allora cinghia di trasmissione dei voleri della Dc, assolutamente no. Dico solo che c’è stato un riallineamento palese, con uomini più sensibili e attenti alle esigenze del partito, mentre noi eravamo attenti soprattutto alle esigenze generali dei lavoratori. I partiti non li ignoravamo, ma venivano in seconda linea.
La Fiom bresciana noi l’avevamo definita allora il “sindacato del no”. Diceva “no” a tutto, salvo poi fare accordi nelle singole fabbriche dove aveva la maggioranza, accordi secondo me discutibili, a volte anche al ribasso. Dal punto di vista generale poi, la Fiom rifiutava ogni tipo di gestione “contrattata” della crisi, non riconosceva nei fatti che stava cambiando il panorama industriale e sociale del paese e che quindi bisognava modificare anche le politiche contrattuali. La vicenda della scala mobile è un esempio illuminante. Ma anche le politiche di ristrutturazione aziendale nella siderurgia. Era evidente che la siderurgia, a livello locale, strutturata com’era, non avrebbe retto a lungo e che i paesi emergenti avrebbero vinto la battaglia: avevano costi più bassi d’energia elettrica, di materie e di manodopera. Brescia pagava in quegli anni il prezzo di un apparato industriale scarsamente avanzato da un punto di vista tecnologico e organizzativo; pagava la sua frammentazione produttiva; pagava un ritardo di lettura della evoluzione dei mercati. La Marzoli faceva dei buoni prodotti meccano-tessili, ma alla lunga non avrebbe retto perché il tessile si stava trasferendo nei paesi dell’Est euro-peo e dell’Asia, quindi inevitabilmente anche le fabbriche che costruivano macchinari tessili nascevano o si spostavano in quelle aree. L’industria armiera era anch’essa in obsolescenza e con spazi di mercato sempre più ristretti, tant’è che la Franchi, seconda fabbrica storica del settore, salta. L’industria dei laminati e trafilati va anch’essa all’aria, e saltano un sacco di fabbriche, non solo la Lmi di Villa Carcina che aveva più di 1.000 dipendenti, ma anche la Re-daelli di Gardone Valtrompia, e con loro altre aziende ancora. C’era, insomma, un apparato industriale debole che si stava sfaldando. La ristrutturazione era inevitabile. La Fim, ma devo dire anche la Cisl, voleva gestire la ristrutturazione, la Fiom voleva semplicemente contrastarla. Ancora oggi la Fiom bresciana è un sindacato che fa difficoltà sulle questioni generali, perseverando in un peccato di origine ai danni della classe operaia, che è quello di gestire in termini politico-ideologici le vicende sindacali. Queste hanno ovviamente riflessi politici, ma vanno gestite soprattutto in termini contrattuali, tenendo conto, oltre che dei bisogni dei lavoratori – che sono oggi assai diversificati – anche della realtà economica e produttiva, nonché dei risvolti sociali generali.
Io sono tra quelli che ha sperimentato la vita in fabbrica prima del ’69, prima cioè delle conquiste dello Statuto dei lavoratori, e ricordo benissimo come si stava in fabbrica allora, ricordo la debolezza di un sindacato diviso e quanto questa pesava nei rapporti di forza con il padronato in generale e le singole aziende. So cosa è costato arrivare alle 40 ore settimanali, mentre quando sono entrato in fabbrica poteva capitarti di doverne fare 48 di ore. Il potere da conquistare in termini di emancipazione da parte della classe operaia era talmente grande che il bisogno di mettere insieme le forze era palese e faceva saltare tutte le divisioni che c’erano state fino allora. Brescia è stata una delle culle dell’unità sindacali. Uomini come Castrezzati hanno costruito l’unità sindacale a Brescia perché avevano capito che solo così si potevano recuperare gli spazi di forza e di potere dei lavoratori dentro le fabbriche e nella società. Ad arrestare il processo è l’interferenza della politica e visioni divaricanti sul come affrontare gli effetti della crisi economica.
E perché noi usciamo così penalizzati dall’esperienza della Flm? Perché la nostra gente era quella che aveva creduto fino in fondo al processo unitario. Noi avevamo tagliato tutti i ponti con la nostra organizzazione, noi avevamo speso tutto nel processo unitario.
Oggi è cambiato tutto. Oggi per difendere il lavoro ci sono lavoratori che salgono sui tetti, sulle gru. Ma se per difendere un diritto essenziale, direi naturale, addirittura vitale com’è il lavoro, bisogna ricorrere ad atti così estremi, che noi non avremmo mai immaginato nella nostra esperienza sindacale, vuol dire che qualcosa di grave è capitato. È successo che per una serie di circostanze complesse, nella percezione sociale di questi ultimi 15 anni, il lavoro è diventato secondario, quasi irrilevante, Intanto la società è cambiata profondamente e ad una velocità impressionante: è un cambiamento di cultura, di valori, di ruoli. Oggi sarebbe impensabile mettersi ad organizzare scioperi per lo sviluppo del Sud come facevamo noi quarant’anni fa: probabilmente gli operai prenderebbero i dirigenti sindacali a pedate nel sedere. Allora era del tutto naturale, normale, occuparsi delle questioni generali del Paese. C’è oggi un individualismo forte, esasperato, viscerale, che domina anche nel mondo del lavoro e rende persino difficile mettere insieme gli interessi di tutti lavoratori. Quindi io non invidio i miei ex colleghi che oggi fanno i sindacalisti, perché immagino quanto sia complicato costruire politiche che tengano insieme tutti i lavoratori. Difficile anche perché oggi il sindacato, onestamente, da un punto di vista politico, è scarsamente tenuto in considerazione. Negli anni ’70 e ’80 se il sindacato diceva qualcosa di serio, contava veramente. Quando decideva uno sciopero generale, faceva cadere il Governo. Adesso lo sciopero generale è quasi un’arma spuntata. Il cambiamento è stato fortissimo, è mutata la società, è cambiato il mondo del lavoro, sono cambiate le professioni, i mestieri e quindi i livelli di formazione professionale degli operai e le loro mansioni. Sono cambiate le aspettative, i bisogni degli operai e la loro collocazione politica: oggi a Brescia quasi la metà degli operai vota per la Lega Nord. Il sindacato dunque ha seri problemi a definire politiche di solidarietà. Come spiegare tutto ciò se non con questo mutamento culturale fortissimo che c’è stato nel Paese? Credo che oggi sia davvero molto difficile fare il sindacalista. Anche a noi non sono mancate le difficoltà. La mia esperienza fu difficilissima, drammatica per molti aspetti, tanto che mi è costata la salute, però i contorni dello scontro erano chiari, erano chiari gli assetti valoriali, il gioco politico era ancora evidente. Oggi questa chiarezza non c’è, è difficile indivi-duare obiettivi condivisi, valori accettati, e quindi richieste sulle quali si può costruire una politica, una strategia unificante efficace. Oggi è molto più difficile. Tra l’altro oggi più della metà degli iscritti al sindacato è fatta di pensionati: come si fa a mettere d’accordo le diversità di aspettative tra attivi e pensionati?
Errori clamorosi ne abbiamo fatti anche noi. Non vorrei sembrare presuntuoso, ma avevamo capito che la società stava cambiando, forse non con l’immediatezza necessaria, forse non cogliendo fino in fondo lo spessore del mutamento che si stava prospettando, ma avevamo intuito che cosa stava capitando. La nostra difficoltà fu nel trasferire sull’insieme del sindacato questa intuizione e quindi l’esigenza costruire modelli innovativi di sindacato e di rivendicazione sindacale. Perché allora la rivendicazione era solo la rivendicazione salariale, punto e a capo. Salario, inquadramento unico, professionalità, ma non bastava più questo discorso, non bastava assolutamente, andava accompagnato da un ripensamento in profondità. Se dovessi farmi dei rimproveri, e qualcuno me ne faccio, è che ci siamo fatti trascinare in vicende nelle quali non occorreva spendere tutta la nostra energia, ma avremmo dovuto giocare di più la partita sui temi veri del cambiamento. Che ad un certo punto esigeva che ci liberassimo della zavorra di quel pezzo di sindacato che a priori contrastava ogni possibilità di cambiamento. Ci volle un fatto straordinario come lo scontro sulla scala mobile per chiudere l’esperienza della Flm, ma già nel ’79 dicevo nelle mie relazioni che la strada dell’unità era finita, che bisognava tornare indietro.
Ovviamente non poteva farlo da sola la Fim di Brescia. Bisognò che si arrivasse al referendum sulla scala mobile e alla rottura del mondo del lavoro con gli scioperi della Fiat, cioè con la marcia dei 40.000, perché anche il sindacato di Torino si accorgesse di questo cambiamento, e così pure anche a Milano. Quei processi si sono negli anni ramificati in una complessità scoraggiante. Ma è in questa difficoltà che c’è ancora spazio per il sindacato, per la Cisl perché i lavoratori hanno pur sempre bisogno di essere tutelati e rappresentati sia in fabbrica, sia nel Paese. E la Cisl, per la sua storia, per la sua cultura e per la sua prassi contrattuale ha tutti i requisiti per svolgere al meglio questo importante compito.