Nato a Cellatica (Bs) il 21 aprile 1926, partigiano con le Fiamme Verdi in Valle Camonica, inizia il suo impegno sindacale nel 1948 nella Libera Cgil. Dopo la nascita della Cisl nel 1950 è prima operatore della Fim e poi dell’ufficio formazione. Nel 1958 viene eletto Segretario generale della Fim, incarico che ricopre per vent’anni; dal 1965 al 1972 è anche nella Segreteria nazionale della categoria. Dal 1978 al 1981 è Segretario generale dell’Unione sindacale provinciale di Brescia.
Quali avvenimenti l’hanno portata al sindacato, alla Cisl?
Durante la Repubblica di Salò fui catturato dai fascisti nel corso di un rastrellamento e incarcerato in quanto renitente alla leva e trovato in possesso di materiale di propaganda clandestina. Fuggito riuscii a raggiungere le Fiamme Verdi in alta Valle Camonica. Nel dopoguerra ebbi incarichi nell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, fino al 1948 quando iniziai il mio impegno sindacale nella Libera Cgil di Brescia come operatore del settore terra. Nel 1950, alla nascita della Cisl, diventai operatore della Fim dove rimasi fino al 1952 quando passai all’ufficio studi e formazione della Cisl. Nel 1958 fui nominato Segretario generale della Fim bresciana e nel 1965 anche componente della Segreteria della Fim nazionale dove seguivo in particolare il complesso Fiat.
Qual è lo scenario in cui si trova a lavorare come Segretario generale della Fim?
Occorre tener presente che nel primo dopoguerra il problema del sindacato era di contenere i licenziamenti. Le fabbriche industria- li erano attrezzate per la produzione di armi e di strumenti bellici e dovevano riconvertirsi per offrire beni di pace in una realtà nazionale priva di materie prime; le aziende si svuotavano mentre arrivavano dai paesi alleati i nostri prigionieri.
Riprendeva un’economia agricola assolutamente povera che dava lavoro, con un imponibile di mano d’opera negoziato, ad una parte esigua della risorsa disponibile. I comunisti col loro sindacato proclamavano scioperi politici per ottenere dal governo ciò che non poteva dare. Per fortuna arrivò il Piano Marshall ad accendere speranze ma non poteva far miracoli con risultati immediati. La Cisl nazionale preferì utilizzare questo tempo – oltre 10 anni – a formare i lavoratori a darsi un sindacato di cui fossero protagonisti non appena la ripresa economico-produttiva consentisse di mettersi concretamente in gioco. Certo non faceva solo formazione. La nostra confederazione promosse due storici convegni, a Bari e a Ladispoli, nei quali furono tracciate le linee guida del nostro sindacato: i nostri iscritti avrebbero dovuto essere consapevoli del loro ruolo guida nell’organizzazione autonoma da partiti e istituzioni, partecipi diretti o attraverso i loro organi sindacali di ogni scelta che li riguardava, migliorare il loro rapporto di lavoro e le loro condizioni di vita attraverso la contrattazione a tutti i livelli (nazionale, locale, aziendale, ecc.) senza ricorrere alla Legge.
Alla Cisl bresciana va il merito di essere stata all’avanguardia nel promuovere fra attivisti occupati e lavoratori disoccupati dei corsi serali di tre sere o settimanali durante tutti gli anni ’50. Quando fui nominato responsabile della Fim la ripresa era in atto; anzi ci si muoveva verso il pieno impiego tanto che la disoccupazione non rappresentava più un problema; manodopera veniva richiesta dal settore agricolo, ma anche dal Sud Italia.
Alla mia categoria sembrava giunto il momento per realizzare le politiche decise a Bari e Ladispoli. Così avanzammo richieste alle singole fabbriche e all’Associazione degli industriali per un adeguamento dei salari alle produttività aziendali mediante premi di produzione o di produttività, di contrattazione dei cottimi, delle qualifiche, ecc.
Purtroppo le controparti, che in precedenza avevano apprezzato i comportamenti della Cisl che si contrapponevano a quelli della Cgil, di colpo si irrigidirono respingendo ogni richiesta. Fu così necessario ricorrere allo sciopero. E lo sciopero, come tutti sanno, per esercitare una pressione valida, ha bisogno della più ampia partecipazione. Risultato che ottenemmo accordandoci con la Fiom che condivideva anche le nostre rivendicazioni.
E’ a questo punto che nascono problemi all’interno della Cisl, non della Fim!
C’è chi ci accusa di esser filo comunisti se non addirittura comunisti. L’unità d’azione, che pure è prevista nelle regole della Cisl – marciare separati e colpire uniti – diventa una colpa. All’esterno, specie nel mondo cattolico, c’è chi condivide le nostre posizioni, sia nella Dc che nel mondo ecclesiale. Personalmente sono incoraggiato dal mio parroco, Padre Giulio Bevilacqua, a perseverare nei miei comportamenti secondo le mie convinzioni e la mia coscienza.
Pensando a quei momenti, di quanti cioè avevano sperimentato la convivenza nell’unità sindacale con quel tipo di comunismo (filosovietico e dittatoriale), si può anche comprendere la prudenza del loro agire. Tuttavia mi domando: che sarebbe accaduto se la Cisl non avesse realizzato nessuno dei suoi programmi per restare sempre in conflitto con i comunisti? E non è vero che i comunisti, da un certo periodo in poi, non sono più quelli dell’immediato dopoguerra?
Queste domande si riferiscono al tempo del mio impegno sindacale e non certo al presente che ha una realtà completamente diversa e che fatico a capire.
Tornando ai primi tre anni del mio mandato alla Fim, i metalmeccanici bresciani hanno realizzato in tutte le medie e grandi fabbriche della provincia accordi aziendali secondo gli obiettivi prefissati. Purtroppo in nessun’altra provincia italiana è stato possibile toccare questo traguardo.
Solo dopo i congressi dei 1962 avverranno cambiamenti nelle Fim dell’alta Italia che permetteranno un analogo rinnovamento nella Fim nazionale e negli anni successivi anche nella Confederazione. Ovviamente Brescia precederà tutti questi cambiamenti con l’elezione di Melino Pillitteri a Segretario generale dell’Unione sindacale provinciale.
Dal 1962 in poi convivono nella Cisl italiana due anime: una favorevole e l’altra contraria alle incompatibilità. Io sono schierato con la prima che la ritiene indispensabile per realizzare l’autonomia del sindacato. Incompatibilità significa che un dirigente sindacale non può contemporaneamente essere anche dirigente di partito o parlamentare o membro di un Governo locale, regionale o nazionale. Infatti come si comporterebbe il sindacalista in caso di divergenze fra politiche del sindacato e quelle del partito? Credo che oggi il problema sia superato e che l’incompatibilità sia un traguardo acquisito; ma all’epoca la questione riguardava vaste entità numeriche e proponeva quindi grossi scontri.
C’è un episodio particolarmente significativo della sua esperienza alla Fim che può essere ricordato?
Nel dicembre 1958 alla Om vi fu uno sciopero contro il premio antisciopero. In verità così lo abbiamo chiamato noi. Si trattava invece di uno sciopero provinciale proclamato dall’Unione per ottenere dal governo investimenti nel bresciano per nuove aziende a partecipazione statale. E su questo eravamo d’accordo. Ma quando alla vigilia ci venne detto che dallo sciopero si doveva escludere la Om perché altrimenti quei dipendenti avrebbero perso il premio di produzione (cioè antisciopero), allora non eravamo più d’accordo. Come avremmo potuto giustificare di fronte a tutti i loro colleghi che sacrificavano parte del loro salario per ragioni di solidarietà questa esenzione ufficiale dei lavoratori Om? In serata fu riunito presso la sede provinciale il direttivo di fabbrica della Sas, la sezione sindacale aziendale, ed io naturalmente ero presente. La riunione continuò fin dopo la mezzanotte; la decisione, con un voto pressoché unanime, fu di confermare lo sciopero nonostante le comunicazioni telefoniche del Vescovo che ci informavano della minaccia della Fiat di trasferire la Om a Torino. Le pressioni aziendali ebbero la meglio e lo sciopero fallì: solo in 21 vi parteciparono di cui 18 della Cisl ai quali in seguito, tramite il Prefetto, venne offerto il premio, che però fu rifiutato. Non vi dico quali accuse mi piombarono addosso. Però da questa vicenda ebbe inizio il riscatto dei lavoratori dell’intero complesso Fiat che arrivarono allo sciopero ottenendo l’abolizione della clausola che li privava del premio di produzione in caso di sciopero. Sparirono così i premi antisciopero anche da tutte le altre aziende che lo praticavano.
Com’è avvenuto il suo passaggio dalla Segreteria Fim a quella dell’Unione?
Verso la metà degli anni ’70 la situazione interna della Cisl si è completamente ribaltata, a tutti i livelli, compreso quello confederale. Bruno Storti, si dimette da parlamentare e resta Segretario generale della Cisl, mentre il suo aggiunto, il senatore Dionigi Coppo, lascia il suo incarico per restare al Senato e successivamente diventerà ministro. In un secondo momento anche Storti si dimette e viene sostituito da Macario; ma si tratta di una sistemazione transitoria della Segreteria confederale. Infatti viene chiamato a succedergli Pierre Carniti che vorrà con se come aggiunto Franco Marini, fino a quel momento all’opposizione. Si concluderà così un lungo periodo conflittuale che ha attraversato la Cisl per circa quindici anni.
A Brescia non esistevano problemi, nel senso che da circa un ventennio tutta l’organizzazione, orizzontale e verticale, conviveva senza grossi problemi. Però Pillitteri era ai vertici dell’Unione da oltre 15 anni ed io a quelli della Fim da quasi 20. Era giusto rinnovare la dirigenza. Mi fu chiesto di passare alla Segreteria generale della Cisl regionale lombarda. Rifiutai subito l’offerta perché ero stanco e non mi sentivo di affrontare questo nuovo pesante incarico. La stessa proposta venne rivolta a Pillitteri che la accolse. Accettai invece di succedere a Pillitteri alla guida dell’Usp-Cisl pur non avendo esperienza di gestioni orizzontali.
Rimasi alla Segreteria generale dell’Unione per circa un paio d’anni, cioè fino alla scadenza congressuale, senza incontrare particolari problemi, se non alcune voci – subito smentite dagli interessati – che si stavano organizzando gruppi contrari alla mia rielezione. Questo a poche settimane dal Congresso.
Il Congresso invece ha confermato che quelle voci erano fondate ed io sono stato rieletto nel Consiglio generale con circa il 50% dei voti. Troppo pochi per continuare a proporre la mia candidatura in una responsabilità che esige ben altri sostegni.
Così ho rinunciato all’elezione nel Consiglio generale, ma ovviamente continuo ad essere iscritto alla Cisl, alla Federazione pensionati per la precisione.
In questi ultimi 20 anni alcune impegnative attività di volontariato a favore del Brasile mi hanno fatto perdere la conoscenza di specifiche realtà politico-sindacali italiane. Adesso poi problemi di salute mi inibiscono forme di partecipazione alla vita pubblica come avrei desiderato.