Nasce nel 1935 a Provaglio d’Iseo (Bs). L’impegno giovanile è nelle Acli. Assunto nel 1957 dalla Banca San Paolo entra nella Segreteria della Fabi, il sindacato unitario dei bancari sopravvissuto, come quello di altre categorie, alla rottura del 1948. Nei primi anni Sessanta è tra gli iniziatori della Federazione lavoratori bancari della Cisl di Brescia sperimentando contrattazione articolata, contratti aziendali, percorsi di formazione e accordi innovativi per la previdenza integrativa. Nel 1971 promuove allo Ial Cisl un innovativo corso per operatori sociali che per molti anni costituisce un riferimento dell’intero settore.
Ho incontrato il sindacato quando da studente pendolare andavo a mezzogiorno a mangiare alla mensa dell’Atb. Mio fratello, operaio al tubificio, divideva con me il pranzo. Nel grande e rumoroso stanzone della mensa, frequentemente i rappresentanti della commissione interna – tra i quali ricordo Mario Bartolini, recentemente scomparso, padre dell’avv. Enrico che oggi è uno dei legali dell’Ufficio vertenze della Cisl – illustravano agli operai proposte e risultati delle vertenze. Conobbi poi la Cisl per la sua storia e per il ruolo politico e sociale durante il periodo del mio impegno nelle Acli, nei primi anni ’60: la nascita, le vicende del periodo unitario, la rottura della Cgil unitaria, la fase di organizzazione, le vicende della sua prima classe politica, l’affermazione dell’autonomia dalla Dc e tutto il resto. Il mio rapporto diretto e l’impegno personale nella Cisl si realizzeranno solo qualche anno dopo, credo nel ’63-’64. Arrivai a quell’incontro con un bagaglio di cultura sociale molto accurata, maturata nei corsi, nei convegni, negli incontri sociali; anche con una buona conoscenza della situazione socio-economica italiana e in particolare della provincia di Brescia, grazie all’impegno e al rigore di quella esperienza straordinaria delle Acli degli anni ’60. Ma vi arrivai anche con una esperienza sindacale, concreta e tecnicamente qualificata, maturata nella Fabi, il sindacato autonomo dei bancari italiani.
Ero appena tornato dal servizio militare e subito andai a cercare le Acli: i giovani aclisti discutevano della Costituzione nata dalla Resistenza, di istituzioni repubblicane e di democrazia intesa come impegno, di emancipazione dei lavoratori e di partecipazione. Per la mia esperienza di vita, trascorsa in ambiente contadino, quel messaggio fu una rivelazione dal fascino irresistibile e da allora vi dedicai una parte significativa dei miei anni, con la coerenza di una missione morale da svolgere. In quel momento e per diversi anni ancora le Acli, più a Brescia che a Roma, rappresentavano una delle cellule più vive della cultura operaia.
Le Acli nascono contestualmente al progetto dell’unità sindacale, negli anni ’44-’45, progetto che eredita l’esperienza del sindacato unitario fascista che pure voleva ricusare; il sindacato fascista era sindacato di regime, di Stato e quindi forzatamente unitario. La novità sostanziale è la convivenza delle diverse correnti ideologiche, già presenti nel Cln, il Comitato di liberazione nazionale, considerate segno di libertà: la Resistenza e la Liberazione sono la prova che l’unità che condivide gli obiettivi è più efficace di quella imposta ed è possibile. Il confronto e la concorrenza politica trascinano però rapidamente anche il sindacato alla rottura. Le Acli nate con funzione di formazione e di elaborazione culturale a sostegno della presenza dei cattolici, si trasformano in movimento sociale e grazie al forte legame con i lavoratori e alla presa in carico dei drammatici problemi della povertà del dopoguerra sperimentano una funzione ed una presenza inedita e originale.
Ci si impegnava nella conoscenza e nella diffusione dei valori e dell’esperienza della Resistenza, del confronto ideologico delle esperienze politiche; si analizzava l’articolazione della democrazia, la presenza e l’autogestione del sindacato, la giusta distribuzione della ricchezza, la difesa dei diritti e l’affermazione della partecipazione, sulla scorta della dottrina sociale della Chiesa, verso la quale non si nascondevano critiche e proposte innovative. Per cambiare le situazioni bisogna partecipare, bisogna affrontare insieme i problemi. I lavoratori e le classi popolari, erano svantaggiati, sfruttati ed emarginati: perciò ci si doveva impegnare a conoscere, studiare, formare rappresentanti onesti, preparati e coerenti.
Le Acli sono una fucina di iniziative, di studio, di informazione, di proposta: ricordo le ricerche sulle case coloniche, sull’apprendistato, sull’analfabetismo; e ovviamente il confronto con l’attività dei partiti politici e dei sindacati. Le Acli creano motivazione ed entusiasmo, speranza di cambiamento.
Quando, dopo questa esperienza, vado a lavorare in banca, mi imbatto in una delle più lampanti ingiustizie: le gabbie salariali e la discriminazione retributiva e di carriera delle donne. I lavoratori sono rappresentati e difesi dalla commissione interna, unico organismo tutelato dalla Legge, ma che affronta le situazioni dei lavoratori in forma amichevole, quasi di assistenza o di raccomandazione; mentre il sindacato sembra limitarsi al rinnovo di contratti, che però prevedono queste palesi ingiustizie.
Una riunione, partita dalle agenzie di periferia della Banca San Paolo, tenuta nei locali dell’Azione cattolica che l’assistente don Francesco Vergine ci aveva messo a disposizione, provocò l’intervento del segretario nazionale della Fabi – si chiamava Pistocchi e veniva dalla Resistenza milanese – la mia cooptazione negli organismi del sindacato provinciale e l’inizio del mio impegno sindacale.
La Fabi era un sindacato di categoria unitario che non si era scisso con la rottura dell’unità sindacale, che proseguiva l’esperienza con la presenza di tutti gli orientamenti ideologici, ma nell’isolamento, sia per garantirsi l’unità interna, ma anche per l’atteggiamento delle Confederazioni che per ragioni di identità accentuavano i propri caratteri ideologici. Ma il vino nuovo che avevo attinto e continuavo ad attingere alle Acli mi portò spesso a polemiche, a contestazioni e a iniziative di rottura, ma anche a tentativi provocatori di attività unitarie con le sigle delle centrali confederali.
La conoscenza e l’ampia e puntuale riflessione che le Acli punti-gliosamente conducevano sulle encicliche sociali, dalla Rerum no-varum alla Mater et magistra fino alla Populorum progressio, mi indussero ad un’altra testimonianza di contestazione e di rottura all’interno dell’azienda in cui lavoravo.
Era consuetudine della Presidenza della Banca San Paolo – una delle tante pregevoli iniziative che nella seconda metà dell’Ottocento portano la firma di Giuseppe Tovini – di convocare una volta all’anno, in occasione della presentazione del bilancio, il Consiglio di amministrazione e tutto il personale dipendente. Molti ritenevano che l’iniziativa fosse viziata dal paternalismo che rendeva difficile la partecipazione dei lavoratori alle attività del sindacato. Nella commissione interna, rinnovata da poco, eravamo stati eletti io, Nico Bignami e Martino Tosini. Decidemmo di prendere la parola nell’assemblea. Preparammo un breve testo parafrasando un brano della Mater et magistra che parlava dei rapporti all’interno della comunità aziendale. L’intervento provocò entusiasmi e riprovazioni; divise non solo l’assemblea, ma la Banca San Paolo e segnò per lungo tempo la vita sindacale interna, spingendo anche i sindacati confederali ad interessarsi ai problemi dei lavoratori bancari. Nasce anche da lì l’interesse della Cisl, che in quegli anni viveva tensioni interne e cambiamenti, in qualche caso riflesso di polemiche e scontri nati nelle Acli.
La novità più importante di quel periodo fu l’arrivo a Brescia di Melino Pillitteri, che segnò il percorso della Cisl soprattutto rispetto all’autonomia del sindacato, al rinnovo della classe dirigente, alla preparazione culturale e professionale dei rappresentanti di fabbrica e di categoria e segnò anche l’autonomia dalle Acli, senza condannare la Cisl all’solamento politico. Pillitteri mi parlò più volte, mi fece sollecitare anche da dirigenti delle Acli e da comuni amici impegnati politicamente. Spiegai a Pil-litteri e agli altri qual’era la mia valutazione, qual’era la collocazione della Fabi e la sua esperienza come sindacato di categoria. Il pericolo corporativo, più per l’isolamento culturale che per reminescenze del ventennio o per disponibilità al privilegio era certo presente, ma ritenevo accettabile il funzionamento della democrazia interna e l’autonomia dalle controparti padronali, apprezzavo l’ottima preparazione tecnica e contrattuale dei dirigenti, l’onestà intellettuale e la sensibilità sociale e politica dei dirigenti. Pistocchi, il segretario generale nazionale, che come ho detto proveniva dalla Resistenza, non faceva mistero della sua iscrizione al Partito repubblicano. Sapeva interpretare la sensibilità e le proposte dei lavoratori, sapeva all’occorrenza scontrarsi e pagare di persona. Per qualche anno rimasi dunque alla Fabi, ma sempre più frequentemente sentivo materializzarsi il sospetto verso la mia appartenenza alle Acli, la mia matrice culturale che mi avvicinava sempre di più alla Cisl, specie quando l’attività del sindacato era orientata ai problemi sociali: pensioni, fisco, casa, sicurezza, programmazione, ecc. Tra i diversi episodi di quel periodo ne ricordo uno molto folcloristico. In un convegno unitario nazionale, mi pare in occasione della definizione di una piattaforma per rinnovo del contratto nazionale di lavoro, dopo un mio intervento, parlò un segretario nazionale della Fisac – la federazione di categoria della Cgil – che apprezzò le mie proposte. Dal tavolo della presidenza uno dei Segretari nazionali della Fabi gridò rivolto al sottoscritto in risposta all’oratore: “Se vuoi te lo regalo!”.
Il sospetto ovviamente non piaceva neanche a me. Nel frattempo la dirigenza provinciale della Fabi si andava sempre più colorando politicamente.
La Fib Cisl, federazione italiana bancari, nacque per l’iniziativa, di cui ero al corrente, di Nico Bignami e di Loris Gennari. Si sviluppò quasi subito anche al Credito Agrario Bresciano con Bruno Frugoni e Franco Moretti, alla Cariplo con un gruppetto tra cui Vittorio Sora e Antonino Cardani, in Valcamonica con Piero e Serafino Avanzini.
Io mi iscrissi qualche tempo dopo, dando ovviamente le dimissioni dalla Fabi. La sede della Cisl in quel tempo era ancora in viale Italia. La nostra attività per qualche anno si svolse prevalentemente in banca. Quando la Cisl si trasferì in via Zadei ci fu assegnata come sede un’angusta stanzetta, in comune con i telefonici. Franco Moretti fu il nostro primo segretario, che ci rappresentava sia a livello regionale e sia a livello nazionale, ma ci informava anche dello stato dell’organizzazione, che in quel periodo aveva come segretario nazionale Perinelli, un dirigente di grado molto elevato di una banca romana, e come membro della segreteria nazionale un personaggio di Palermo molto discusso per presunti legami di mafia.
Alcune Fib Cisl del Nord si mossero per i rinnovare l’organizzazione, per evitare tergiversazioni, iniziative separate nella firma di contratti, valutazioni di resistenze corporative e simpatie padronali: a Milano c’erano Confetta, Crestetto, Pellegrini e Persano; a Parma c’era Teloni; a Genova, Uke e Cazzolini; nel Veneto, Fabrello.
Il Congresso di San Marino fece piazza pulita della vecchia dirigenza e avviò una esperienza per molti versi esaltante. Al nostro ritorno da San Marino, Pillitteri, volle sapere come erano andate le cose: avemmo l’impressione non solo che sapesse ogni cosa, ma che fosse anche soddisfatto dei risultati. Milano sindacalmente stava vivendo una operosa e non tranquilla vigilia di svolte sindacali, che vedevano Pillitteri molto attivo.
Da allora fui presente sulla scena sindacale fino a quando andai in pensione. Sono stato ininterrottamente membro della segreteria dei bancari della Cisl, quasi sempre negli organismi regionali, dal Congresso di San Marino fino alla conclusione del contratto nazionale del 1980 fui membro dell’esecutivo nazionale della Fib. Rappresentai spesso la categoria negli organismi provinciali della Cisl. Io non sono uomo politico, né uomo di organizzazione, sono un anarchico (qualcuno mi ha ritenuto un anarchico bianco), più fedele a ciò che ritengo verità che agli schieramenti e alle consorterie. Ho sempre amato sperimentare concretamente le idee di cui mi innamoravo: l’ho fatto in banca, costruendo con i miei colleghi proposte e rivendicazioni, soffrendo con loro le difficoltà e l’incomprensione delle lotte, spesso fuori dal coro e per questo non compreso e guardato con sospetto anche dalle dirigenze sindacali. L’ho fatto alle Acli, nel Circolo, promovendo e costruendo con i lavoratori e con i giovani del quartiere iniziative che alimentavano le loro speranze e sostenevano le loro esperienze; con i senegalesi del Residence Prealpino che volevano parlare e capire l’italiano e avere momenti di formazione professionale per trovare posti di lavoro; l’ho ripetuto a livello provinciale organizzando risposte al bisogno di sapere e di formazione con la Scuola serale intitolata a don Milani. Mi capitò di farlo in alcune occasioni anche alla Cisl.
Verso la fine del 1970 presso il Luzzago, per la generosità della direttrice e del Superiore tenevamo i corsi della Scuola serale don Milani nelle aule che ci venivano concesse gratuitamente. Una sera, credo in novembre, vennero da me, che fungevo da responsabile, alcune signore e signorine iscritte al primo anno di un corso serale per assistenti sociali che si teneva lì vicino, nei locali delle Suore del Sacro Cuore, promosso da alcuni insegnanti dell’Università di sociologia di Trento e da alcuni personaggi della politica locale. Queste lamentavano la disorganizzazione e l’assoluta inadeguatezza scientifica e didattica dell’iniziativa: senza insegnanti qualificati, senza piano di studio, senza certezza organizzativa. Temevano non solo di perdere il denaro versato, ma anche l’anno scolastico. Chiedevano che la Scuola serale desse loro una mano, subentrando nella direzione dell’iniziativa. La situazione non poteva essere sanata con interventi organizzativi: bisognava ipotizzare un intervento serio e organico con il coinvolgimento della Regione e con la collaborazione di valide e provate capacità professionali, nonché delle assistenti sociali dipendenti del Comune di Brescia. Ne parlai con Pillitteri che promise di interpellare subito l’assessore regionale Hazon e di verificare la disponibilità dei vertici regionali e nazionali dello Ial, l’istituto per l’addestramento dei lavoratori della Cisl. Nacque così una delle più in-teressanti ed impegnative iniziative di formazione della Cisl che si impose sia a livello regionale che a livello nazionale, per il contenuto e per l’innovativa struttura didattica, per il ventaglio dei percorsi formativi che oltre a quello per gli operatori sociali si sarebbe arricchito di corsi per educatori professionali, bibliotecari, consiglieri scolastici e tutta una serie di percorsi di aggiornamento attraverso i quali lo Ial Cisl di Brescia acquisì considerazione e stima da esperti, da enti locali e da istituzioni formative. L’esperienza durò fino a quando le normative regionali e nazionali non trasferirono le competenze e il ruolo alle Università. Non mancarono difficoltà, prima con la dottoresssa Molinaroli, la prima direttrice dello Ial, la quale sosteneva che la formazione degli operatori sociali dovesse essere riservata alla scuola di Milano, che vantava lunga esperienza in merito e poteva attivare una convenzione con la Regione. Difficoltà pure con le assistenti sociali del Comune che potevano far valere significative esperienze di lavoro e la qualità della propria prestazione: appoggiavano senza riserve la posizione della dott.ssa Molinaroli. Furono determinanti per la continuità e il successo dell’iniziativa il ruolo di Pillitteri, la disponibilità dell’assessore regionale Filippo Hazon, la capacità e la serietà del gruppo dirigente e docente che seppe convincere gli uffici regionali ad assicurare i finanziamenti.
Il periodo in cui nacque e si consolidò l’esperienza di formazione professionale dello Ial Cisl di Brescia è tra i più vivaci ed effervescenti della storia sindacale e sociale del nostro Paese. Non si era ancora esaurita la spinta rivoluzionaria del ’68 e la elaborazione matura delle esperienze innovative che l’hanno preparato: la socializzazione di esperienze culturali dell’America, quali lo sviluppo delle scienze sociali e delle ricerche sociali; le esperienze inglesi di programmazione e quelle dei paesi nordici di sicurezza sociale; le riflessioni innovative e trasversali di don Primo Mazzola-ri che mettevano in crisi la sicurezza di giudizi cattolici; la testimonianza socratica di don Milani, quella inedita e coraggiosa dei preti operai francesi, il fascino della comunità ecumenica di Taizè; il rimescolamento del Concilio Vaticano II; l’ingenua utopia di Martin Luther King; la speranza alimentata da Kennedy. In ambito sindacale si stavano sperimentando organismi ed iniziative unitarie; si elaboravano piattaforme di categoria con contenuti sociali ed economici come la riforma delle pensioni, le tutele della sa-lute, l’inquinamento atmosferico, il pendolarismo, l’immigrazione dal Sud e le condizioni di vita dei lavoratori. Si conducevano ricerche sulle condizioni dell’apprendistato, sulle condizioni delle abitazioni, sui trasporti, sull’analfabetismo, ecc. Tra le esperienze più significative ricordo quella delle 150 ore e quella dei consigli unitari di zona. L’attività dello Ial Cisl fu un valido aiuto anche per questi impegni.
La scuola per operatori sociali scosse anche la vita interna della Cisl sia per la presenza di gruppi di ricerca che facevano da supporto alle necessità di conoscenza e documentazione dei Consigli di zona sindacali, specie di quelli più vivaci, sia per il contributo culturale e scientifico di studenti, spesso studenti lavoratori, sia di docenti universitari ed esperti, ma anche per la vivacità del dibattito ideologico e culturale che provocava sui temi caldi dell’autonomia del sindacato, dell’unità e del rapporto con gli enti locali e le istituzioni.
Credo che solo la disponibilità e l’intelligenza di Pillitteri, dei dirigenti regionali dello Ial e degli altri responsabili delle grosse categorie della Cisl di Brescia – Castrezzati, Braghini, Caffi, Borio, Lodigiani – abbia garantito all’iniziativa condizioni di tranquillità e di svolgimento libero ed apprezzato. Le attività didattiche e di ricerca furono sempre sorrette e difese dall’impegno e dalla coerenza dei presidenti, innanzitutto da Maria Serina, dai direttori, Fernanda Chemel e Piero Brunori e dagli insegnanti che con la loro preparazione hanno reso inattaccabile un’esperienza di frontiera. Fu un’iniziativa che lasciò il segno a livello professionale, ma anche nella gestione dei servizi sociali di Comuni e istituzioni, oltre che nella sperimentazione di percorsi didattici e nell’organizzazione di strutture di documentazione.
Seguii lo Ial Cisl per ben 10 anni, durante i quali continuai anche a mantenere, sia pure a fatica, le attività e gli impegni sindacali in banca, a livello locale e a livello nazionale. Quando la fase di sperimentazione fu conclusa e l’entusiasmo dell’azione sindacale andava scemando, mi dedicai ad altro.
Altra collaborazione importante con la Cisl e il sindacato confederale fu la consulenza che spesso veniva chiesta al sindacato di categoria per la verifica di situazioni finanziarie di aziende in crisi, con difficoltà occupazionali.
Più impegnativa fu la collaborazione che venne chiesta alla Fib, prima dai metalmeccanici poi dalle altre categorie, relativa al pagamento delle paghe e degli stipendi, tramite accreditamento sui conti correnti. Ragioni di sicurezza, di perdita di tempo, ma anche ragioni di benefici economici ci suggerirono l’elaborazione di una proposta da concordare con le aziende e con le banche. Elaborammo con le categorie e con le strutture confederali una proposta standard che conteneva i tempi della disponibilità dello stipendio, i costi del servizio, gli importi dei possibili sconfini temporanei, le condizioni di eventuali finanziamenti, il tasso e le condizioni di eventuali depositi a risparmio. Assistemmo le categorie nelle assemblee, realizzammo mediazioni con le banche che scoprirono i possibili vantaggi di tali iniziative e in seguito misero a disposizione di aziende e di sindacati aziendali i propri esperti. Ovviamente fummo spesso consulenti per l’investimento dei fondi di riserva sia della Cisl che di alcune categorie.
Un altro significativo contributo di studio e consulenza riguardò la previdenza integrativa aziendale prima della riforma del Tfr. Il nostro settore, assieme a pochi altri, aveva un’esperienza da molti anni riguardo a forme interessanti di fondi di previdenza integrativi. Negli anni della polemica corporativa venivano considerati forme paternalistiche di privilegio. La Banca San Paolo aveva un fondo integrazione pensioni a favore del personale costituito nei primi anni del Novecento. Garantiva inizialmente mediante versamenti aziendali e dei lavoratori una percentuale dell’ultimo stipendio percepito. Per le distorsioni e le differenziazioni che il meccanismo produceva negli anni del dopoguerra, ponemmo più volte mano alla trasformazione del meccanismo delle prestazioni e dei contributi. Gli studi e le elaborazioni e il confronto con altre esperienze realizzate da diverse banche, prime tra tutte le Casse di risparmio, ci posero nella condizione di poter essere consulenti credibili di alcune categorie per avviare esperienze di pensioni integrative o di assicurazione vita. La nostra esperienza divenne preziosa quando si dovettero valutare le ipotesi e quindi le scelte relative alla trasformazione del Tfr e alla costituzione di forme previdenziali integrative.
Ho vissuto l’esperienza Cisl per trent’anni, quasi tutta la mia vita lavorativa, utilizzando sempre e solo permessi sindacali, ma non il distacco. Il rapporto con i miei colleghi è sempre stato vitale, sia per l’elaborazione di proposte e giudizi, ma anche per la verifica di acquisizioni e norme contrattuali. Non ero sempre d’accordo con loro, ma non mi sentivo sicuro senza un confronto costante. Il mio impegno ha sempre voluto essere un servizio concreto, onesto, trasparente agli amici che volevo rispettati ma attivi e solidali nella comunità aziendale.
La Cisl che ricordo con molta simpatia è quella laboriosa, preparata e trasparente non solo di Pillitteri, ma di Castrezzati, Braghini, Compagnoni, Tognoli, Bolpagni, Corselli, Regenzi, Borio, San-drini, Guarneri, Valetti, Peli, Moretti, Gennari, Orizio, Paiola, Gar-dani, Scarpini, Bonera, Gregori, Lodigiani, Tedoldi, Panzera, Apostoli, dei tanti che ora le pieghe della memoria mi nascondono, ma che vivono indimenticabili nell’amicizia. Ho vissuto con il loro entusiasmo, sorretto dalla loro fiducia. Ho gioito quando arrivò ai chimici Cattabriga; ho apprezzato sempre la cordialità di Corselli come la rude disponibilità di Tedoldi. Sono ormai passati vent’anni da quando sono andato in pensione e ho chiuso la mia esperienza sindacale. Ho fatto altro. La stima per le persone è quella di allora, ma la Cisl la conosco sempre meno. Da anarchico temo la carriera sindacale, che non facilità la partecipazione diretta dei lavoratori, rende estraneo il sindacalista, tentato dal ruolo di funzionario, dal condizionamento delle regole e delle cariche superiori. Temo anche una certa occupazione eccessiva di spazi sociali da parte del sindacato. Temo, ma non sono sicuro che sia così. Ma anche se fosse così sono invece sicuro che gli amici di sempre eviteranno con il loro impegno personale, anche supplendo le mie mancanze, che si realizzino concretamente le conseguenze negative che pavento.